Le Scienze
In un chip di pochi millimetri l’intero patrimonio genetico umano.
I genetisti se lo aspettavano da un momento all’altro. E, perfino un po’ in anticipo rispetto alle attese, poche settimane fa è arrivato. Lo Human Genome Plus 2.0, (HG-plus) questo è il suo nome commerciale, somiglia ad un microprocessore, come quelli che si trovano nei computers e nei gadget tecnologici. Sulla sua superficie, però, non sono fissati circuiti e transistor in miniatura, ma molecole di DNA. Chips del genere sono già in circolazione ma quest’ultimo segna un importante svolta: è il primo in grado di contenere le sequenze dell’intero genoma umano.
Le analogie fra i chips a DNA (tecnicamente chiamati microarrays) e i loro equivalenti informatici non si fermano all’aspetto esteriore. Così come i microprocessori hanno reso possibili calcoli che un tempo avrebbero richiesto anni, i chips a DNA permettono analisi genetiche che altrimenti occuperebbero l’intera carriera di più ricercatori. Non c’è da stupirsi perciò che questi strumenti siano oggi il fulcro di una nuova rivoluzione per la ricerca biomedica e la medicina. Una rivoluzione nata dall’intuizione semplice e geniale di un ricercatore americano, Stephen Fodor, divenuto in seguito fondatore e capo della Affymetrix, l’azienda della Silicon Valley che ha prodotto l’HG-Plus, oggi considerata a giusto titolo l’equivalente biologica dell’Intel. L’ idea fu quella di utilizzare il processo di fotolitografia, lo stesso con cui si producono i circuiti integrati, per fissare molecole di DNA su un supporto. Si possono così ancorare su un chip grande come un unghia migliaia di piccole sonde di DNA (cioè porzioni dei geni che si vogliono analizzare) da usare come altrettante provette di reazione in miniatura.
Per un ricercatore, questo significa poter effettuare migliaia di analisi genetiche in pochi minuti, con enorme risparmio di tempo e fatica. E’ possibile ad esempio misurare l’attività contemporanea di migliaia di geni presenti in un campione di tessuto malato e confrontare questa “firma molecolare” con quella della controparte sana.
Questo ha già aiutato, per ora solo in via sperimentale, a diagnosticare alcuni tumori e individuarne precocemente le forme più invasive. Dalle poche centinaia di geni dei primi modelli, commercializzati a partire dal 1994, la capacità dei chips è andata crescendo in modo esponenziale, esattamente come quella dei loro analoghi informatici, incorporando sempre di più i dati provenienti dalla decifrazione del genoma umano. L’HG-plus ha una capacità più che doppia rispetto ai modelli precedenti, ed è in grado di misurare l’attività contemporanea di tutti i 30-40mila presenti nel nostro genoma e delle loro varianti, equivalenti a 50mila geni totali.
Le sonde presenti nel chip sono però 1,3 milioni, perché la misura di ciascun gene viene ripetuta in 22 punti diversi: un’ altra caratteristica in comune con i microprocessori, dove una buona fetta della capacità di calcolo serve a correggere gli errori, garantendo una migliore qualità dei dati.”Quest’ultima generazione di chips darà un impulso soprattutto agli studi globali sull’intero genoma, che diventano sempre più importanti “- commenta Sandro Banfi, responsabile del laboratorio microarrays del TIGEM di Napoli. “Ma, aggiunge, solo quando il prezzo si abbasserà la comunità scientifica comincerà ad utilizzarli in modo massiccio”. In effetti, nei laboratori è molto più facile trovare microarrays “fatti in casa” che permettono di analizzare solo qualche decina di geni alla volta ma hanno dalla loro un costo decisamente inferiore. I chips commerciali rimangono per lo più confinati ai pochi istituti – perlopiù privati – che se li possono permettere, ma sono gli unici che si prestano alle analisi automatizzate e offrono le garanzie di riproducibilità per un futuro uso diagnostico.
Per fortuna sono in molti a contare sul fatto che i chips a DNA seguiranno, come i loro analoghi in silicio, la famigerata legge di Moore, diventando allo stesso tempo sempre più potenti e meno cari
© Sergio Pistoi, Le Scienza Dicembre 2003