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Layla, i miracoli non c’entrano.

Layla, la bambina inglese affetta da leucemia la cui storia sta facendo il giro del mondo, è stata trattata con successo grazie a “cellule ingegnerizzate” geneticamente. Un metodo che vale la pena di raccontare, perché – al netto degli inevitabili reportage miracolistici-  è un esempio incoraggiante, speriamo a lieto fine, di quello che sarà la medicina molecolare […]

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Layla, la bambina inglese affetta da leucemia la cui storia sta facendo il giro del mondo, è stata trattata con successo grazie a “cellule ingegnerizzate” geneticamente. Un metodo che vale la pena di raccontare, perché – al netto degli inevitabili reportage miracolistici-  è un esempio incoraggiante, speriamo a lieto fine, di quello che sarà la medicina molecolare dei prossimi anni.

Cerco di spiegarlo con una metafora che non piace neanche a me, ma aiuta a chiarire le idee. Mettiamo che un organismo malato sia come una macchina rotta. La medicina finora ha fatto passi incoraggianti nella cura di quelle malattie dove la macchina ha perso un pezzo per strada: significa che se c’è un gene che non funziona, in teoria è possibile sostituirlo inserendone una copia buona dall’esterno. Questa forma di riparazione si chiama  terapia genica. Detta così sembra facile, ma non  lo è, e infatti sono ancora poche le malattie curate in questo modo.

Ma la definizione di terapia genica (lett. curare con il materiale genetico) include anche un’altra possibilità: quella intervenire sui geni della cellula che funzionano, invece di inserirli da fuori.  Se uno ci pensa, è il caso che si presenta più spesso: nella macchina rotta è più probabile che si debba modificare, mettere le mani nel motore o nella carrozzeria, piuttosto che aggiungere, magari cambiando una marmitta che si è persa in giro. Per le malattie è lo stesso: nella trasformazione tumorale, ad esempio, sono quasi sempre implicati  geni che funzionano male o funzionano troppo (gain of function, in termini tecnici) mentre  i loss of function, quelli che smettono di funzionare, per quanto importanti,  sono una minoranza o l’eccezione. E comunque, se si vuole   prendere davvero il comando di una cellula e fargli fare quello che vogliamo, piuttosto che aggiungere geni da fuori  sarebbe meglio imparare a modificare quelli che già si trovano dentro e già fanno il loro sporco lavoro.  I genetisti descrivono questa opzione con una metafora più letteraria, o se vogliamo cinematografica, e parlano di  gene editing.

Purtroppo l’editing è stato sempre il tallone di Achille della terapia genica. Non si riesce a fare, è difficile. Non funziona. O almeno non funzionava fino a poco tempo fa. E qui entra in gioco la nostra Layla.

Per curare la leucemia di Layla i ricercatori hanno preso delle cellule immunitarie (di donatori) e le hanno sottoposte a gene editing  per ottenere il risultato voluto: trasformarle in cellule-killer che attaccano il tumore e che, allo stesso tempo, sono immuni alla chemioterapia e non provocano rigetto. Il sistema usato è ingegnoso e un po’ lungo da spiegare qui, ma la novità è nell’approccio:  se i risultati visti per Layla saranno confermati (un solo caso è incoraggiante ma non fa statistica) sarà forse  il primo successo clinico di terapia genica che non si limita ad aggiungere geni, ma mette le mani nel motore del DNA praticando il gene editing. Se funziona, sarà anche una terapia  facilmente applicabile altri pazienti come Layla, dato che le cellule-killer non provocano reazione immunitaria.

Il gene editing è un cambio di prospettiva straordinario che fino a poco tempo fa sembrava lontano.  Layla sta bene ma per parlare di cura ci vogliono tempo, statistiche e molti altri casi. Soprattutto, la sua storia non è un miracolo, come si legge su Facebook e su alcuni articoli più o meno informati. E’ invece l’evoluzione naturale della terapia genica,  una scienza giovane e dagli esordi difficili, frutto di decenni di investimenti e ricerca di base.  I miracoli, per favore, lasciamoli a chi ci crede.

Il comunicato stampa del Great Ormond Street Hospital

 

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