La rivincita della spazzatura
C’era una volta la parte più bistrattata del nostro corpo. Ora è lei che fa da padrone, o quasi.
(Non è quello pensate. Si parla di DNA. Ma la cosa è ugualmente importante).
Immaginiamo di sorvolare i nostri cromosomi con una microscopica navicella. Dall’alto vedremmo degli immensi deserti dove sparute oasi di geni sono separate da lunghissime sequenze di DNA apparentemente inutile. E’ il cosiddetto DNA “spazzatura”, un nome che i ricercatori gli avevano appioppato solo perchè non capivano a cosa servisse ( gli scienziati, quando non riescono a spiegarsi qualcosa a volte si arrabbiano). Il DNA “spazzatura” è da sempre l’elefante nella stanza dei genetisti: rappresenta oltre il 90% del nostro genoma ma fino a poco tempo fa si è fatto finta che non esistesse, liquidandolo come “junk”. Eppure si intuiva che, geni o meno, tutto quel DNA a qualcosa doveva pur servire.
Oggi le cose sono più chiare possiamo dire: “spazzatura un corno!”. Prove scientifiche sempre più schiaccianti mostrano che questa parte del DNA è il motore principale che determina l’organizzazione e la complessità del genoma. E ora il successo del progetto ENCODE ha portato alla ribalta del pubblico l’importanza di questo DNA un tempo così bistrattato.
Dalla mappa al mappamondo
(Estratto dal libro Il DNA incontra Facebook di Sergio Pistoi, Marsilio Editori, 2012 isbn: 978-88-317-1241-5). Scarica l’indice e il primo capitolo in pdf)
Se vi capita di visitare Palazzo Vecchio a Firenze, vi consiglio di salire gli ampi scaloni fino al salone dei Cinquecento. Dopo aver superato il quartiere di Leone x e altre tre bellissime stanze, fermatevi e ammirate quello che forse è il primo atlante nel senso moderno del termine. Nella sala delle Carte geografiche di Palazzo Vecchio il granduca Cosimo I de’ Medici mise insieme la più grande raccolta di carte geografiche del xvi secolo: cinquantatré mappe, disegnate curiosamente sulle ante di grandi armadi, che sintetizzavano il vertice delle conoscenze geografiche dell’epoca, dal Niger al Giape (Giappone), dalle isole Britanniche alla Nuova Spagna (Messico). Per capire l’importanza di quella sala, però, non possiamo fermarci alle mappe sulle pareti, ma dobbiamo contemplare l’enorme mappamondo che Cosimo volle piazzare strategicamente nel bel mezzo della stanza. È quel globo a trasformare l’atlante in uno strumento moderno: grazie a esso quelle cartine diventano un insieme tridimensionale e interconnesso che vale molto più della loro somma.
Cinque secoli dopo è toccato ai genetisti subire un cambiamento di prospettiva simile a quello dei geografi di Cosimo I. Da quando è possibile studiare la mappa del DNA nella sua interezza si è scoperto, infatti, che esiste una dimensione superiore del genoma, una rete che collega fra loro tutti i geni e i cromosomi. È come se i ricercatori avessero trovato un filo che collega ogni gene al resto del patrimonio genetico, come un computer connesso a internet. Questi studi hanno svelato una parte del nostro genoma che finora era rimasta nascosta come la faccia oscura della luna e serviranno fra non molto a costruire profili genetici individuali più «tridimensionali» e precisi.
Internet dentro di noi
L’internet dei geni si chiama epigenoma e il suo studio (l’epigenomica) è uno dei settori più promettenti della biologia. Il termine deriva dall’unione della parola genoma con il suffisso greco epi (sopra). L’epigenoma costituisce infatti un livello superiore di regolazione che va oltre la sequenza di lettere del DNA, il tipo e il numero dei geni: possiamo immaginarlo come un insieme di meccanismi complessi (i meccanismi epigenetici, appunto) in grado di influenzare e coordinare l’attività di migliaia di geni o di interi cromosomi senza avere alcun effetto sulla sequenza di lettere del DNA. Per rendere le cose più chiare possiamo dire che se il genoma è un libro di ricette, i meccanismi epigenetici si comportano come segnalibri e graffette che segnalano alle cellule quali pagine del libro leggere e quali no, oppure funzionano come note a margine che aiutano a interpretare il messaggio scritto nel DNA.
Cinque secoli dopo è toccato ai genetisti subire un cambiamento di prospettiva simile a quello dei geografi di Cosimo I.
Il meccanismo epigenetico più noto e studiato è la cosiddetta metilazione, un processo che consiste nell’aggiunta di un gruppo chimico detto metile alla catena del DNA. Un tratto di DNA che viene metilato non modifica la sua sequenza di lettere, ma la metilazione, come un’etichetta molecolare, segnala alla cellula che quel segmento di cromosoma è spento. Un tratto di DNA metilato, quindi, di solito è inattivo, perché ignorato dai macchinari cellulari preposti alla lettura del genoma. Altri segnali epigenetici possono avere segno opposto, indicando che un tratto di DNA è «acceso», e insieme alla metilazione forniscono alla cellula indicazioni di regia, influenzando l’attività di decine o migliaia di geni contemporaneamente e addirittura di interi cromosomi come se fossero comparse in un colossal.
Un aspetto interessante dell’epigenoma è che a esso – oggi lo sappiamo – spetta il compito di definire e mantenere l’identità delle cellule, stabilendo un programma genetico che passa insieme al DNA da una cellula madre alla figlia, proprio come una ricetta si trasferisce da una generazione all’altra completa di annotazioni. Grazie ai segnali epigenetici le nuove cellule «sanno» già di essere parte di un determinato tessuto o muscolo, avviandosi verso la loro funzione.
Gattine anti- spazzatura
L’esempio più simpatico di epigenetica al lavoro è il mantello colorato di Whyska, la gattina del vicino che ogni tanto passa sul mio terrazzo. Whyska è una gatta calico, per capirci di quelle a chiazze di tre colori diversi. Come sanno bene gli amanti dei felini, il mantello calico esiste solo nelle femmine, ma pochi sono a conoscenza della ragione, che va ricercata proprio in sofisticati meccanismi epigenetici. Le femmine di gatto (come quelle di tutti i mammiferi) possiedono, infatti, due cromosomi X di cui uno solo è attivo, mentre l’altro è tenuto spento da complessi fenomeni epigenetici. Dato che in ogni cellula uno dei due cromosomi X viene spento a caso, si creano zone del pelo dove è attivo, alternativamente, uno solo dei due X.
Il fenomeno passa inosservato in molti mammiferi, ma nelle gatte diventa chiaramente visibile, perché in questi felini il cromosoma X contiene i geni che determinano il colore del pelo: le chiazze di colore diverso corrispondono quindi a zone dove sono attivi uno o l’altro dei due cromosomi X.
Meno simpatiche dei gatti, ma decisamente interessanti, sono le prove sempre più schiaccianti che mostrano l’importanza dei meccanismi epigenetici nello sviluppo e nel funzionamento dell’organismo e nell’origine di molte malattie. L’OMIM (Online Mendelian Inheritance in Man, la bibbia delle malattie genetiche umane) riporta oltre duecento patologie nelle quali i meccanismi epigenetici hanno un ruolo dimostrato o fortemente sospetto. Tra esse troviamo alcune rare malattie ereditarie, ma anche patologie comuni come il cancro, dove una regolazione epigenetica difettosa può far perdere l’identità a una cellula, scatenando il processo tumorale. L’epigenetica spiega anche un fenomeno curioso chiamato imprinting, dove un gene si esprime in modo diverso a seconda che provenga dalla madre o dal padre. Un esempio di imprinting è la sindrome di Angelman, una malattia genetica rara che si manifesta solo se il cromosoma difettoso viene dalla madre. Lo stesso difetto, ma sul cromosoma paterno, causa invece una malattia diversa, la sindrome di Prader Willi.
Un altro campo dove l’epigenomica ha dato un impulso straordinario è lo studio delle cellule staminali. Oggi è noto che la capacità rigenerativa di queste cellule dipende in buona parte dalla possibilità di resettare il proprio programma genetico per assumere un’identità diversa e questo avviene cancellando i segnali epigenetici presenti nel DNA. Agendo sui questi segnali, un gruppo di ricercatori giapponesi guidati da Shinya Yamanaka è riuscito nel 2007 a riprogrammare cellule umane adulte trasformandole in cellule staminali pluripotenti simili a quelle embrionali (Induced Pluripotent Stem Cells), una scoperta che ha aperto nuovi orizzonti alla medicina rigenerativa.
L’avvento degli studi sull’epigenetica ha portato a guardare con occhi nuovi il cosiddetto «DNA spazzatura», e cioè il DNA non codificante del genoma che, abbiamo visto, rappresenta la stragrande maggioranza del nostro patrimonio ereditario. Il ruolo del DNA non codificante è ancora in gran parte misterioso, ma è ormai chiaro che da esso partano innumerevoli segnali epigenetici che influenzano il funzionamento dell’intero genoma. Uno di questi, l’interferenza a RNA (iRNA), è valso il premio Nobel per la medicina (2006) agli scienziati che lo hanno scoperto: gli americani Andrew Fire e Craig Mello. L’iRNA consiste nel fatto che il DNA non codificante produce delle corte molecole di RNA, ciascuna delle quali interferisce in modo specifico e mirato con l’azione di uno o più geni. L’insieme di tutti questi RNA forma una rete incredibilmente complessa e raffinata per la regolazione del DNA, un mondo nuovo che le ricerche stanno gradualmente svelando.
Alla luce degli studi più recenti, insomma, possiamo dire che proprio quella parte del genoma un tempo liquidata come «spazzatura» rappresenta la vera eminenza grigia del nostro patrimonio ereditario.
Pagelle tridimensionali
[…] Considerata l’importanza dell’epigenetica, è prevedibile che i profili genomici del futuro non potranno fare a meno di prenderla in considerazione. Le pagelle genomiche di domani non saranno soltanto basate sulla sequenza completa del DNA, ma somiglieranno sempre più a mappamondi tridimensionali, nel senso che terranno conto della complessità del genoma, delle relazioni fra geni diversi e dello stato epigenetico del DNA. Vedere «dall’alto» il genoma, proprio come un mappamondo, ci farà individuare collegamenti utili e insospettabili fra diverse parti del nostro DNA, molto più di quanto riusciamo oggi a fare con una lista lineare di geni e varianti.
Affiancando i profili epigenetici alla sequenza del DNA sarà più facile decodificare l’identità e il programma genetico delle nostre cellule: questo potrà aiutarci, per esempio, a distinguere il programma «criminoso» di un tumore in fase incipiente da quello di un tessuto normale. Con il progredire degli studi, anche l’epigenetica verrà assorbita, distillata e utilizzata dalla genomica personalizzata e questo non potrà che migliorare l’affidabilità delle nostre pagelle genomiche.
© Sergio Pistoi e Marsilio Editori 2012
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