Questa non è la prima epidemia devastante che ho vissuto. Da ragazzo ho subito il terrore di fronte ad una nuova e misteriosa malattia chiamata AIDS.
Chi non c’era alla fine degli anni ’80 faticherà a capire la i dubbi e le paure di un’intera generazione di giovani alle prese con quello che allora era un virus emergente: l’HIV.
Proprio mentre l’acqua degli ormoni bolliva e bisogna cominciare a buttare la pasta, proprio mentre ci auguravamo di poter imitare, almeno per un po’, l’amore libero della generazione precedente, ci veniva detto di stare attenti, molto attenti, ma senza che davvero nessuno capisse il perché, A cosa, a chi? Cosa si poteva fare, cosa no?
Come per tutti i nuovi patogeni, le notizie contrastanti e le speculazioni si accavallavano alimentando la confusione. Sulle prime si parlava di un virus che colpiva solo i gay: il primo nome dell’AIDS fu GRID (Gay-related-immune deficiency). Poi venne il momento devastante del contagio tra i tossicodipendenti. Ricordo persone che potevo ritenere autorevoli ripetere a tutti che se non eravamo gay o tossici potevamo fregarcene.
Poi, lo sappiamo, arrivò la realtà a picchiare duro, e mostrare che nessuno era immune dal rischio di una morte orribile, allora senza cure efficaci.
L’AIDS non ci ha mai tenuti chiusi in casa e lontano da tutti ma era ed è un vero bastardo. Per noi non era l’AIDS lontano e relativamente curabile di oggi. Era presente, tangibile, sconosciuto e letale. Un tarlo nei nostri cervelli incasinati che ci avvelenava la vita, proprio quando ce la dovevamo godere, e qualche volta portava via quella di amici o conoscenti.
L’informazione governativa, pessima allora come oggi, mostrava pubblicità di persone con aloni viola di contagio. Spot che hanno fatto la storia, in negativo, della comunicazione. Che ci lasciavano dubbiosi sui comportamenti da adottare e sul grado di distanziamento dagli altri.
Ci si poteva infettare toccando un malato? Boh. Era pericoloso baciare o toccare una ragazza? E se aveva il virus? Si poteva fare petting? Boh.
Ricordo ancora dibattiti televisivi con le opinioni più incredibili, dal negazionismo spinto alle punizioni divine per i peccatori.
Due cose cambiarono il corso degli eventi in quel periodo.
La prima- per me- fu la lezione, una mattina al liceo, di due medici che vennero apposta dall’ospedale per fare il giro delle scuole. Li subissammo di domande senza remore, e loro risposero onestamente, senza paternalismi, in base a quello che in quel momento potevano sapere. Noi eravamo il target, noi eravamo quelli più a rischio e più spaventati, e noi avevamo il diritto di parlare con i medici, e sapere cosa loro sapevano.
Era l’ iniziativa di un giovane infettivologo che negli anni darà un contributo significativo all’ospedale e alla città. Molti dubbi, magari i più stupidi, svanirono.
Iniziarono i ’90 con le notti magiche e i goal di Schillaci e tanti nuovi dati sull’HIV, ma le fake news sull’AIDS ancora imperversavano.
Fu allora che arrivò la svolta per un’ intera generazione dubbiosa e spaventata.
Lui si chiamava Ferdinando Aiuti, era un immunologo. Stufo di leggere notizie fasulle secondo cui il virus si trasmetteva con un semplice contatto ravvicinato, fece una cosa banale ma esplosiva.
Baciò pubblicamente in bocca una ragazza positiva all’HIV, Rosaria Iardino. La foto del bacio fece il giro del mondo.
Oggi è difficile capire l’impatto enorme che ebbe quel gesto nella percezione pubblica della malattia, intrisa di pregiudizi e aloni viola intorno alla testa degli untori.
Quel gesto era l’antitesi del paternalismo che vediamo oggi: un accademico che, forte dei dati scientifici, ci giocava non solo la faccia, ma l’intera sua esistenza.
Credo che la gente percepì a pelle la forza e l’onestà del messaggio. Da una parte opinionisti da salotto. Dall’altra uno scienziato che metteva il verdetto nella mani della realtà.
Per un pubblico confuso, fu come se qualcuno avesse tolto di mezzo un peso, una spada di Damocle appesa. Il dibattito sull’AIDS non fu più lo stesso.
In queste settimane ho pensato spesso a quel gesto, così attuale.
Nella comunicazione pubblica sul COVID ho visto l’equivalente imbruttito dei vecchi spot dell’AIDS che erano già brutti trent’anni fa.
E come allora, vedo e leggo i negazionisti, le prime donne, quelli che per cui l’epidemia è un complotto o una punizione divina.
Ma stranamente, tra coloro che sostengono che iL virus sia inesistente, inoffensivo, frutto di complotti internazionali, non ho visto ancora nessuno ispirarsi ad Aiuti, limonare con pazienti COVID e vedere cosa succede.
Non ho visto nessun opinionista andare a casa di malati senza mascherina e respirare un po’ di tosse a pieni polmoni, giusto per mettere alla prova le proprie sicurezze scientifiche.
La nuova società dei droplets informativi in libertà non contempla il rischio personale, la prova fisica delle proprie convinzioni.
I programmi con opinionisti non contemplano neanche una domanda sfidante, figuriamoci una tavola apparecchiata con stoviglie usate da pazienti covid da leccare- che è quello che proporrei io a certi ospiti se avessi un programma.
E’ una democrazia senza responsabilità, dove tutti possono parlare ma nessuno è chiamato a dimostrare con i fatti.
Si chiama idiocrazia ed è quello che ci meritiamo.