Panorama
Qualche anno fa sembrava aver scoperto la cura definitiva per i tumori. O, almeno, così scrisse la stampa mondiale. Poi, tutto si sgonfiò. Ma al suo centro di Boston gli esperimenti continuano.
Sergio Pistoi e Chiara Palmerini, Panorama, 31 Luglio 2002
(Leggi anche “Quite Celebrity, an Interview with Judah Folkman“, Scientific American.com)
È bastata una frase sul New York Times a trasformare la vita di Judah Folkman. Il 3 maggio 1998, un articolo in prima pagina raccontava al mondo intero che due composti naturali scoperti nel laboratorio di questo tranquillo scienziato di Harvard, endostatina e angiostatina, avevano eliminato qualsiasi tipo di tumore nei topi. «Judah curerà il cancro in due anni» scrisse il Times, riportando un commento del premio Nobel James Watson. Quelle parole avevano indotto migliaia di malati a pensare che era la volta buona: ecco, finalmente «la Cura» per il cancro.
Al decimo piano del Children’s Hospital di Boston, famoso ospedale pediatrico, Folkman rievoca quell’episodio alla fine di una lunga conversazione. «Ho saputo di quell’articolo la notte prima che fosse pubblicato». Nei giorni seguenti, centinaia di persone lo chiamarono chiedendo aiuto. E diversi pazienti volarono a Boston sperando di poter essere curati. Da allora, nel suo staff tre persone lavorano a tempo pieno per gestire le richieste dei pazienti. Nonché le domande di interviste da parte di giornalisti, che per la maggior parte rifiuta.
Sessantanove anni, figlio di un rabbino, enfant prodige della chirurgia (negli anni 50, ancora studente, inventò il primo pacemaker impiantabile e più tardi mise a punto una delle prime capsule per il rilascio lento dei farmaci), Folkman si è trovato quasi a fine carriera a gestire una popolarità non cercata. Per tutta una vita ha studiato l’angiogenesi, i meccanismi con cui si formano i nuovi vasi sanguigni. Ma la comunità scientifica guardava con sufficienza quelle ricerche che sembravano non portare da nessuna parte. Solo una decina di anni fa gli scienziati hanno iniziato ad accettare l’intuizione di Folkman: che si possano «affamare» i tumori impedendo l’arrivo del sangue, invece di distruggerli con la chemioterapia. Endostatina e angiostatina inibiscono in modo specifico la formazione di nuovi vasi, senza interferire con quelli già esistenti, colpendo così il tumore con pochi effetti collaterali. Queste idee, alla fine, hanno dato avvio a un vasto campo di ricerca e allo studio di possibili terapie non solo contro il cancro, ma contro altre malattie in cui l’angiogenesi ha un ruolo importante: dalla degenerazione maculare alla psoriasi, dall’artrite reumatoide alle malattie cardiovascolari.
«Oggi, ogni settimana vengono pubblicate 40 ricerche nel campo dell’angiogenesi. Nel 1971, uscivano tre studi l’anno» racconta Folkman. Oltre ad angiostatina ed endostatina, una ventina di altri inibitori dell’angiogenesi vengono sperimentati sull’uomo in centri medici in Europa e Usa; sette nell’ultima fase, quella che, se tutto va bene, precederà la commercializzazione.
Gli studi clinici di solito si svolgono dietro le quinte. Alle molecole di Folkman è toccata prematuramente la luce dei riflettori. E con essa un’altalena di aspettative sproporzionate e disillusioni che hanno fatto prima impennare e poi precipitare i titoli della Entremed, la piccola società biotech che dal 1991 ha acquistato i diritti sui due composti. Non solo: fino a un anno fa, solo a Boston, 1.800 malati terminali di cancro erano in lista d’attesa per far parte di uno studio clinico che poteva arruolare poche decine di persone per volta, estratte a sorte. «I pazienti trattati sono quelli cui non restano scelte» spiega Folkman. «Con tumori che avanzano rapidamente, per cui è fallita ogni altra terapia».
I risultati di tre anni di studi rivelano che endostatina e angiostatina sono sostanze relativamente poco tossiche e ben tollerate. Su circa cento pazienti con 18 diversi tipi di cancro, nel 20 per cento dei casi i tumori sono rimasti stabili o sono regrediti.
Risultati incoraggianti, se si considera che lo scopo di questa prima tappa di sperimentazione, la fase I, è solo di stabilire se il farmaco è sicuro. Perché allora la strategia di Folkman non si sarebbe rivelata «all’altezza delle aspettative», come alcuni giornali hanno titolato? «Bisogna vedere quali aspettative» dice Folkman, tracciando con calma grafici e numeri su un foglio.
«Ci sono quelle della stampa e ci sono le nostre». E spiega che la sperimentazione di qualunque farmaco è per sua natura lunga e difficile, tanto più per patologie complesse e diverse tra loro come i tumori. Quel che è peggio da accettare, soprattutto per chi è malato e ha poco tempo, è che non ci sono scorciatoie.
Per la sperimentazione di endostatina e angiostatina valgono le regole stabilite per tutti gli studi clinici. All’inizio si può solo aumentare lentissimamente la dose somministrata a persone per cui è già fallita ogni altra terapia. «Siamo dovuti partire con una dose di 15 milligrammi per metro quadrato di superficie corporea su tre pazienti» dice Folkman. «Tutti con brutti tumori, tutti con metastasi. Ricevevano la terapia ogni giorno e una radiografia una volta al mese. Appena apparivano nuove metastasi uscivano dallo studio».
Nelle prime fasi dei test, quando le dosi sono ben più basse di quelle che si sono dimostrate efficaci nei topi, è poco probabile che si registrino eventuali effetti benefici. Per quanto frustranti per i singoli malati, queste sono le regole migliori a disposizione.
Il punto, avverte Folkman, sta proprio in quello che ci si aspetta dagli esperimenti. Le molecole antiangiogenesi hanno, oltretutto, caratteristiche molto diverse dai chemioterapici. Poiché non uccidono le cellule tumorali, ma bloccano il nutrimento del tumore, gli eventuali benefici possono emergere molto lentamente e, all’inizio, in modo ambiguo. «Non ci si deve aspettare una rapida regressione del cancro, come con le chemioterapie» dice Folkman. I farmaci antiangiogenesi, inoltre, funzionerebbero forse meglio quando la malattia è all’inizio.
Ma prima che si possa sperimentarli su pazienti con cancro non avanzato, per cui ci sono altre terapie a disposizione, ci vorranno forse anni. «E prima della fine della fase II, forse dell’inizio della fase III» dice Folkman «non saremo autorizzati a usare endostatina e angiostatina insieme, cosa che nei topi ha fatto regredire i tumori. Nessuno sa cosa farà negli esseri umani. Ma è quello che tutti aspettano di vedere».
La fase II, per valutare l’efficacia dell’endostatina, è da pochi mesi iniziata su un centinaio di malati con un raro tumore del pancreas, quello che nei primi esperimenti sembra aver dato i risultati migliori. Ed è di pochi giorni fa la notizia che anche l’angiostatina ha iniziato la fase II, in pazienti con tumore del polmone, in combinazione con chemioterapia. «Ci vorranno tre, quattro anni prima di poter tirare le somme» prevede Folkman.
La speranza è che i farmaci, combinati magari con chemio e radioterapia, possano rendere il cancro una malattia cronica. Con una terapia da continuare magari per tutta la vita, come i topi del laboratorio di Folkman, morti di vecchiaia nonostante il cancro. Queste molecole, infatti, sono quasi del tutto prive di effetti collaterali.
Tra veder scritto in un articolo scientifico «nessuna tossicità osservata» e vedere i pazienti in carne e ossa, «c’è la stessa differenza che tra andare a Parigi e guardarla su una mappa» assicura Folkman, raccontando dei malati al vicino Dana-Farber Cancer Institute. «Arrivano in macchina e vengono solo per prendere le dosi di farmaco per la settimana, e per le analisi. Non si distinguono dai visitatori perché sembrano sani. Qualcuno è ingrassato per impressionare i familiari e far vedere che sta bene».
È ancora presto per sapere se queste persone guariranno o se la malattia è destinata a ripresentarsi più aggressiva di prima. E qualunque medico sa bene che la bontà di una cura non si giudica da casi singoli, magari fortunati. Solo i prossimi studi potranno verificare se i farmaci di Folkman funzionano, e per quali tumori.«Tutto ciò che posso dire è che, se sei un topo e hai un tumore, ti possiamo aiutare» disse lo scienziato di Harvard all’indomani dell’annuncio sul Times. Le aspettative esagerate hanno messo a rischio la reputazione di Folkman, oggi costretto a spiegare perché i risultati dei suoi farmaci sono inferiori a quanto ci si attendeva.
Quelli che ha scoperto, dice, sono «beautiful drugs», ottimi farmaci. Lui ci crede ancora. Però crede anche nelle regole della scienza basata su prove. E le accetta. Quanto ai danni alla reputazione, se il clamore sulla stampa è servito a portare da lui anche un solo paziente che beneficerà della terapia, allora, dice Folkman alla fine della conversazione, a registratore spento, non c’è cosa di cui gli importi meno.
© Chiara Palmerini e Sergio Pistoi