E se Libero fosse una mozzarella?
I tarocchi giornalistici e l’elogio del lettore pagante.
Supponiamo che il misfatto fosse noto, perché scritto su tutti i giornali e confessato dai produttori: la mozzarella Bufalì è fatta con latte di pipistrello. Oppure: l’ultimo smartphone della Sampipp è un mattone con uno schermo fasullo stampato sopra (disclaimer: i marchi sono di pura fantasia).
Cosa accadrebbe è ovvio. Scoperto l’inganno gli articoli truffaldini sparirebbero dagli scaffali e dalle nostre vite, obliterati dalla dura legge del commercio, e le ditte produttrici dovrebbero cambiare nome, o trovarsi qualcos’altro da fare.
Ci sarebbero magari strascichi giudiziari, citazioni e condanne, sequestri di intere partite di merce, ma il mercato, quello “che ce lo chiede anche l’Europa”, non avrebbe bisogno di aspettare i tre gradi di giudizio: reagirebbe a botto. I “prodotti-sola”, una volta smascherati, rimarrebbero relegati nella zona grigia dei piazzisti da strapazzo, delle vendite porta a porta a poveri anziani un pò rimbambiti.
Ora cambiamo prodotto. Immaginiamo un quotidiano sulle cui pagine appaiono notizie fasulle, inventate di sana pianta. Infittiamo ulteriormente la trama: chi ha scritto quelle notizie è stato addirittura pagato sottobanco dai servizi segreti, con lo scopo di intorbidire le acque su indagini importanti. Esageriamo, e poniamo pure che il taroccaro in questione non se ne vada, e continui imperterrito a scrivere, nascosto dietro ad uno pseudonimo, anche se tutti conoscono la truffa.
Domanda: chi mai andrebbe ancora in edicola a comprare quel quotidiano-patacca?
Ovviamente nessuno, direte voi. Le copie finirebbero al macero, gli abbonati disdicerebbero, gli inserzionisti fuggirebbero come dallo tsumani. Il quotidiano avrebbe due scelte: chiudere i battenti oppure cambiare rotta, licenziare il giornalista-sola insieme a direttore e caporedattore, colpevoli di mancato controllo.Le sanzioni, le radiazioni dagli albi e i processi giudiziari arriverebbero a rotative ormai rottamate, oppure troverebbero il pieno appoggio di una nuovo direttivo, messo al posto di chi ha causato il patatrac. Logico no? No, almeno in Italia.
Già, perché quella storia è successa davvero, e la conoscono tutti. Il giornale si chiama Libero (ma potrebbe essere qualunque altro) e lo spacciatore di falsi è un certo Renato Farina (ma potrebbe chiamarsi anche in un altro modo). La storia è nota: nel 2006, alla vigilia delle elezioni, il signor Farina (che era vicedirettore di Libero) pubblicò dietro compenso del Sismi ( i servizi segreti) un falso dossier che coinvolgeva l’allora capo della Comissione Europea Romano Prodi in un’intricata storia legata al caso Abu Omar, alle extraordinary reenditions, e a trame internazionali ( lascio a voi approfondire questa grave vicenda). Una volta scoperto, Farina venne condannato per favoreggiamento e radiato dall’albo dei giornalisti, dove verrà reintegrato nel 2011 dalla Cassazione per un grottesco difetto di forma (pare si fosse dimesso prima della radiazione).
Se fosse stata una mozzarella tarocca, il prodotto a marchio Libero sarebbe stato ritirato dal mercato, e distrutto dalla mancanza di clienti. E invece no. Anche dopo che il falso diventa palese a tutti, nel 2006, il quotidiano esce puntuale nelle edicole. Non solo: il giornalista taroccaro, pur radiato dall’ordine, continua a scrivere i suoi pezzi con il ridicolo pseudonimo di Dreifuss, sotto l’occhio protettivo e benevolo del direttore responsabile, certo Sallusti.
E’ cronaca di questi giorni che il signor Sallusti , beccatosi una condanna per diffamazione proprio a causa di uno dei tanti articoli del signor Dreifuss, rischia di finire in galera (ma non ci va, anche se è recidivo) trasformandosi in un martire nazionale della libertà di opinione (scusate, conato di vomito). Questa vicenda penale, ma soprattutto penosa, mi interessa poco ( se proprio volete saperlo, sottoscrivo quello che ha scritto Michael Braun su Internazionale.)
La domanda che mi perseguita è: come è possibile dal 2006 ad oggi ci sia gente che ha continuato a comprare quel giornale, conoscendo il rischio altissimo di leggere notizie false, per di più pilotate dall’esterno? La diffusione media di Libero (dati audipress, Luglio 2012) è di circa 95mila copie. Se crediamo a queste cifre (teniamo conto che sono numeri dichiarati dagli editori) significa che c’è ancora un numero consistente di persone che acquistano quel prodotto. Ad esempio Il Fatto Quotidiano, per citare un’altra testata di tiratura media, ha una diffusione di poco più di 54mila copie.
Perchè ancora lo comprano, Libero? Insomma, come mai per i giornali l’azione catartica del mercato non funziona bene come per le mozzarelle Bufalì e i cellulari Sampipp?
Ecco le prime risposte che mi vengono in mente.
Uno, chi compra Libero non sa niente della vicenda. Come il vecchio rimbambito che compra ancora la mozzarella di pipistrello. Possibile, ma improbabile.
Due, il panorama del giornalismo è così desolante che uccide il gusto per il prodotto di qualità: la notizia tarocca non scandalizza più di tanto, perchè l’intero mercato dell’informazione è a sua volta una mega-patacca piena di mozzarelle avariate, prodotte senza alcun rispetto per chi le compra. Questo è abbastanza vero, se si considera ad esempio quanto vengono pagati i pezzi scritti dai freelance (a cui ormai si deve una fetta sempre più grande di quello che si legge sui quotidiani).
Prendiamo Libero, visto che ne parliamo: 15 euro lordi a pezzo in cronaca nazionale, anche per una notizia in apertura (dati 2010-2011). Repubblica, a fronte 16 milioni di euro di finanzamenti pubblici, corrisponde 30 euro lordi per un pezzo di 5-6mila battute. E c’è chi paga ancora meno. Leggere per credere. Buona parte dell’informazione italiana è fatta così, con du’ bracci e una lira. Ma davvero pensate che per 15 euro, o anche meno, che ci sia qualcuno disposto ad applicare le buone regole del giornalismo, a fare ricerche minuziose, raccogliere fatti, verificare fonti e informazioni, magari intervistare qualcuno e tirare fuori una notizia decente? Fatte le dovute proporzioni, è come se qualcuno millantasse di produrre un buonissimo olio extravergine o una fantastica mozzarella di bufala DOC per qualche centesimo al chilo. Normale che la patacca sia dietro l’angolo. Fisiologico che la cialtroneria sia la norma.
Eppure, mi direte, non è il mercato che dovrebbe imporre una politica di qualità? Un giornale migliore, più autorevole, più curato dovrebbe avere più lettori e inserzionisti e guadagnare di più, e magari remunerare meglio i propri collaboratori. Perchè questo non succede?
Terza spiegazione: chissà, forse il mercato funzionerebbe, se non fossimo tutti acquirenti a nostra insaputa. Per il fatto stesso di pagare le tasse, compriamo tutti un sacco di copie di giornali, senza neanche uscire di casa e andare in edicola. Come molte altre testate, Libero ha beneficiato di contributi pubblici diretti e indiretti: 40 milioni di euro fra il 2003 al 2009 (secondo wikipedia che cita un libro). Nel solo 2006, anno della mega-patacca Fariniana, il giornale ha percepito contributi statali per 5.451.451 Euro che gli hanno permesso di chiudere i bilanci in sostanziale pareggio. In un articolo del 2011, l’Espresso spiegava come, nonostante i finanziamenti pubblici, Libero fosse comunque in una situazione economica precaria, e di certo non in grado di generare profitti.
Insomma, come molte altre realtà editoriali, Libero non sarebbe mai riuscito a sopravvivere con mezzi propri, e cioè contando sulla fedeltà e l’apprezzamento del proprio pubblico. Mi risulta difficile pensare in termini di qualità se il cliente pagante è una variabile marginale rispetto alla generosità statale.
Ora , datemi pure del qualunquista e dell’illuso, ma preferirei sapere che se un giornale esiste, sopravvive e prospera, è perché la gente davvero lo sceglie e lo compra, proprio come fa con la mozzarella, senza gli effetti di un mercato drogato da sussidi statali.
Non mi va di svegliarmi la mattina e chiedermi se anch’io, con le mie tasse, ho comprato senza saperlo un po’ di copie di qualche giornale-patacca.
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Addendum: Per chi dice che tutto il mondo è paese: date un’occhiata alla lista dei più grandi scandali giornalistici (USA) degli anni ‘2000. Leggete la storia di Jack Kelley, Jayson Blair e di altri pataccari a stelle e striscie, e dei loro direttori, poi cercate le differenze con i nostri. Indovinate dove sta Renato Farina?