Dieci anni di Dolly: io e il mio clone
Il tempo passa in fretta, e dieci anni sono trascorsi da quando nei laboratori scozzesi del Roslin Institute usciva la pecora Dolly. Cosa si può dire che già non sia stato detto e scritto in questi dieci anni, trascorsi fra la falsa speranza di una clonazione-panacea per tutti i mali e l’ancor più irrazionale paura di un mondo pieno di uomini-fotocopia? Posso provare a raccontarvi due storie che mi riguardano.
Prima storia. Quando il musetto di Dolly cominciò a fare il giro del mondo e si cominciò a parlare seriamente di fotocopie umane, già da qualche anno vivevo con un clone. Non scherzo. La mia compagna si chiamava L. ed era una ragazza clonata, infatti dall’altro lato della strada viveva S. individuo in tutto e per tutto identico a lei. Stessa faccia, stessa voce, stesso DNA. D’accordo, il mio era un clone naturale, frutto di uno strano e raro fenomeno avvenuto nel grembo materno, ma quando la gente si strappava i vestiti all’idea inquietante di incontrare orribili fotocopie umane, io e i cloni vedevamo il tutto con una prospettiva molto diversa. Certo, la clonazione riproduttiva non è cosa da farsi, ci sono molti motivi per cui vale la pena essere contrari, ma sapevamo anche che di cloni umani è già pieno il mondo, senza che questo faccia paura a nessuno. Anche se qualcuno si divertisse a creare un paio di bambini-clone (a parte i rischi, il poco rispetto per i "clonati" e l’inutilità dell’impresa) il mondo non crollerebbe. E poi, più che quella, ipotetica, del DNA, ha sempre fatto più danni la clonazione del nostro "software": l’omologazione delle menti e delle coscienze, che putroppo è sempre stata una realtà nella storia. Ma qui non dico più nulla di originale…
La seconda storia, più professionale, è quella del mio incontro con un famoso "clonatore" – o sedicente tale. Ve la racconto nel prossimo post. Pistuà