Geni a Bordo: di nuovo in tour
Fertility Doomsday
Cosa possiamo imparare dalla disastrosa campagna del ministero della salute.
Infuria la polemica sulla campagna Fertility Day del ministero della Salute, con la seconda versione dei materiali informativi appena ritirata dal sito, com’era successo pochi giorni fa con la prima versione. Se il primo tentativo è stato un epic fail, il secondo è un olocausto nucleare della comunicazione.
L’intera campagna è una rassegna sconcertante di ingenuità comunicative da cui però possiamo trarre preziose lezioni ed è questo l’obiettivo del mio post, dove tenterò un’analisi degli errori comunicativi più evidenti e di come si potevano evitare.
Prima i fatti: all’inizio di settembre trapelano i materiali di una nuova campagna di informazione del ministero della Salute, chiamata Fertility Day. L’ obiettivo sanitario, informare sulle cause dell’infertilità, è giusto e condivisibile, ma l’approccio comunicativo è dilettantesco. La campagna, pianificata malamente ed eseguita ancora peggio, scatena polemiche e sfottò un pò dappertutto ed è abortita ancora prima della partenza ufficiale fissata a fine settembre.
Lezione 1: I diversi canali di comunicazione (radio, TV, web, stampa etc…) devono funzionare sinergicamente e dare messaggi coerenti fra loro.
Già dal capitolato del bando ministeriale, in realtà, si poteva capire che le cose non promettevano bene. Ad esempio, già in fase di bando era già stabilito che la campagna TV la facesse il ministero, mentre gli altri canali sarebbero stati in mano all’agenzia appaltatrice. L’impressione, confermata dagli eventi, è che non ci fosse una cabina di regia in grado di coordinare la campagna in modo che tutti i canali (TV, radio, web, cartellonistica etc..) fossero sinergici e coerenti. Non si può pensare ad una campagna multicanale senza una strategia generale e una cabina di regia.
Lezione 2: Mai tralasciare i fondamentali, e il titolo è fondamentale.
Altro errore di base: il nome. Fertility day. E’ chiaramente sbagliato per una campagna di informazione sanitaria sull’infertilità. Nella testa del lettore fa risuonare i valori della fertilità e della riproduzione e non l’idea di un problema di salute pubblica, che era l’obiettivo della comunicazione. Anche in assenza di idee originali (alla faccia dei creativi) sarebbe stato meglio puntare sul concetto di infertilità. Infertility day? Brutto ma se non altro non avrebbe rischiato di essere frainteso come l’apologia delle Italiche Fattrici. Giornata contro l’infertilità? Meglio, o comunque un filone da esplorare in mancanza di altre idee. I titoli non cascano dall’albero: bisogna lavorarci, simulare, mettersi nei panni del target e capire l’effetto che fanno (vedi anche la lezione 3). Ai non addetti può sembrare una sottigliezza, ma vi assicuro che siamo a livello elementare di comunicazione pubblica.
Lezione 3: In fase di pianificazione bisogna sempre mettersi nella testa del target.
Altro problema che scatena la bufera: i messaggi degli opuscoli e dei cartelli sono confusi, non è chiaro dove si voglia arrivare. Peggio ancora, alcuni di essi suonano come un invito esplicito ad accelerare la riproduzione prima che sia troppo tardi, ignorando allegramente il contesto sociale in cui vengono catapultati: coppie con lavori precari, asili e strutture di assistenza carenti, maternità difficili per le lavoratrici. Un altro grave errore che un comunicatore non può permettersi: bisogna sempre tenere conto delle possibili reazioni del target, e chiedersi come il messaggio verrà interpretato in base al contesto sociale, ai riferimenti culturali, all’attualità del momento.
Le reazioni sui social alla prima versione degli opuscoli non si fanno attendere e vanno dallo sfottò alla polemica furente. Scrivendo su Internazionale, la pubblicitaria AnnaMaria Testa riassume le evidenti ingenuità comunicative della campagna, definendola “una provocazione sterile”. Testa piega bene che
“persuadere è una pratica gentile e che è sbagliato credere- come afferma qualcuno- che una campagna funzioni solo perchè se ne parla”.
Questa gliela rubiamo, è un’altra lezione importante:
Lezione 4: Il vecchio detto secondo cui “non importa come, purché se ne parli” è una cavolata.
Bisogna vedere come se ne parla, e quali messaggi si trasmettono. Anche qui siamo a livello di comunicazione strategica elementare. Tutte cose che un capo comunicazione del ministero, e un’agenzia, dovrebbero sapere.
Lezione 5: Se la comunicazione pubblica non funziona non è mai colpa del destinatario. Semmai è colpa del comunicatore.
Proseguiamo con la cronaca dei fatti. Mentre monta la polemica sui primi opuscoli , il ministro della Salute Lorenzin, nel fuoco incrociato delle critiche, non trova di meglio che dare la colpa al pubblico che secondo lei non ha capito. Altro errore pacchianissimo di chi ignora i fondamentali. Non fatelo mai.
Lezione 6: un progetto ben fatto richiede tempo e risorse adeguati. E le persone giuste, possibilmente capaci.
Più che un esperto di comunicazione, questo consiglio di buon senso ce lo potrebbe dare la nonna. E invece, in un goffo tentativo di smorzare le critiche, il ministro fa marcia indietro e annuncia in TV e sui social che l’agenzia rifarà la campagna ( gratis) in pochi giorni, al volo, come se fosse una pagnotta venuta male. Pronti per il lancio ufficiale a fine mese. Altro errore evidentemente generato dal panico
Prendete un responsabile ministeriale della comunicazione che ha pianificato male l’intero processo, forse per mancata supervisione, forse perchè ignaro/a dei principi fondamentali della comunicazione. Prendete un’agenzia “scelta” con bando pubblico che, pur avendo a disposizione mesi di tempo e un budget, partorisce un obrobrio come quello che abbiamo visto nella prima versione della campagna. Ora rimetteteli insieme per la la versione 2.0. Vi aspettate davvero che, magicamente e in pochi giorni lo stesso team rifaccia e azzecchi una campagna che aveva chiaramente fallito? In quale universo- si chiederebbe Sheldon di BBT? L’esito era segnato.
Lezione 7: mai farsi prendere dal panico. Un campagna di comunicazione (anche quelle ben progettate) può andare male. Fermati, respira e pensa. Avrai modo di rimediare. Non peggiorare le cose.
Ho solo parafrasato un vecchio insegnamento da sub, sempre valido anche fuori dall’acqua. Il Ministro Lorenzin non ha seguito questo importante precetto. Ed eccoci infatti alla versione 2.0 della campagna che, com’era prevedibile, viene fuori ancora peggio dell’originale: grafica da sagra paesana, luoghi comuni, messaggi incomprensibili e involontariamente razzisti, impiego di immagini mediocri, foto di archivio di quelle che si comprano per pochi centesimi in rete, e già strausate in giro per illustrare la qualunque (nulla contro le immagini di archivio, le uso anche io. Ma almeno spendete di più e compratele in esclusiva, visto che si può fare).
Ma veniamo alla sostanza del messaggio, che è la cosa più importante. Da una parte (“Le buone abitudini da promuovere“) c’è gente bella, bionda e chiaramente caucasica al mare (su un gommone? In spiaggia? E poi perchè al mare?). Bella gente che a quanto pare si riprodurrà senza problemi. Dall’altra , virata in color seppia, un’accozzaglia di giovinastri mezzi rasta che fumano (si fanno le canne? oppure una semplice sigaretta rollata a mano?). Loro sono “i cattivi compagni da abbandonare“. Deduciamo che da grandi non si riprodurranno, non così facilmente almeno.
Il messaggio è ancora più criptico che nella prima versione della campagna. Se prima il detonatore della polemica era stato il tema della maternità banalizzato e maltrattato, stavolta è ancora peggio, perchè fra gli amici da abbandonare si intravedono facce di colore, mentre i felici riproduttori sono tutti bianchi e biondi. Nei social (e non solo) si grida al razzismo, spero involontario, ma è la miccia che fa esplodere (anzi implodere) una campagna mal fatta, inutile e piena di errori.
Lezione 8: Una comunicazione che voglia incidere sui comportamenti deve includere degli actionable.
Anche se il pubblico fosse stato sensibilizzato positivamente da questi opuscoli, c’è infatti un altro difetto da manuale: mancano i cosidetti actionable, ossia messaggi che stimolino un’azione, suggeriscano che cosa fare, ad esempio quali comportamente adottare per combattere l’infertilità. Tipo: parlane col tuo medico. Oppure, se avesse una rilevanza sanitaria: cancella dalla rubrica tutti gli amici con i capelli rasta. Questo tipo di cose.
Gli actionable mancano nella prima e nella seconda versione. A cosa serve una campagna del genere se non mi dà indicazioni su cosa fare? Se vuoi che smetto di fumare per salvaguardare i miei spermatozoi, dimmelo chiaramente e persuadimi, non mi mettere le foto degli sballoni incitandomi ad abbandonarli come cani sull’autostrada. Neanche il materiale sul sito (almeno quello che non è stato ancora ritirato) aiuta. E’ ripetitivo, paternalistico, mal progettato e mal scritto.
Lezione 9 e 10 l’autoreferenzialità uccide la comunicazione.
Questa vicenda sarebbe un case history da portare nei corsi di comunicazione, se non fosse che queste cose succedono tutti i giorni senza che la gente lo sappia. Per un epic fail come questo che finisce sotto i riflettori, centinaia di altre Caporetto si consumano nel silenzio, sotto gli occhi sempre più mesti di chi ama la comunicazione ben fatta e responsabile.
Soltanto il ministero della Salute nell’ultimo anno ha lanciato decine di campagne informative. Quante di esse hanno centrato gli obbiettivi? Non è dato di sapere. La collega Barbara Gallavotti, con cui in tempi non sospetti scrissi un breve saggio sulla comunicazione istituzionale, commentanto su Facebook ha sintetizzato efficacemente la questione:
“di solito il risultato rimane visibile a pochi i quali si fanno i complimenti fra loro con il solito meccanismo autoreferenziale che conosciamo. Questa volta è uscito tutto fuori, ed è stato come mettere un gatto persiano in mezzo a una superstrada di Los Angeles all’ora di punta.”
E così abbiamo anche i gattini, che su Internet vanno sempre bene.
Infine i miei actionable: se vi è piaciuto questo post, condivitetelo. E se avete in mente di fare comunicazione, chiamatemi. Io e altri bravi consulenti freelance siamo a disposizione. E costiamo meno di molte agenzie.
La Bufala di Higuain e i finanziamenti alla ricerca: perché anche gli scienziati ci cascano?
Gira su Facebook un meme secondo cui tutto il finanziamento alla ricerca italiana nel 2015 varrebbe quanto il costo di acquisto di Higuain da parte della Juve: meno di 95 milioni di euro.
L’affermazione che il meme contiene è ridicola per chiunque abbia una remota familiarità con le politiche della ricerca, e direi anche con l’aritmetica.
Basta guardare le cifre OECD sul finanziamento pubblico alla ricerca per vedere che nel 2014 il governo italiano ha stanziato 8.450,4 milioni alla ricerca. Poco meno di otto miliardi e mezzo, dunque. Lo conosciuto autore del nostro meme, insomma, ha sbagliato quasi di un fattore cento. Non male.
Perché mi riferisco al 2014 e non al 2015, come recita il meme? E’ semplice: perché per il 2015 le cifre ancora non sono disponibili. E’ infatti molto difficile che questo tipo di dati sia disponibile a otto mesi dalla chiusura dell’anno.
La cifra OECD include anche una parte dei fondi generali di funzionamento delle università, ma esclude ad esempio il contributo italiano ai fondi europei del programma Horizon 2020, complessivamente (per tutta la UE) 67 miliardi di euro in sette anni.
Con un po’ di memoria e con i conti della serva ci arriva anche senza l’ OECD a capire che quei numeri sono una cavolata. Non sentiamo ripetere da anni che il finanziamento alla ricerca italiana è meno dell’1% del PIL? Dato che il PIL italiano è sui 1.400 miliardi, l’uno per cento è 14 miliardi. Ci ripetono anche (ed è abbastanza vero) che oltre la metà di questo 1% arriva dal settore pubblico. Fanno sette-otto miliardi, più o meno come sopra. Anche senza andare troppo a sfrucugliare nei numeri ufficiali, quindi, si capisce subito che siamo lontanissimi dal nostro Higuain.
Aggiunto il 29/07/2016 Come mi fa notare per email un lettore, che ringrazio, la cifra di 95 milioni allude molto probabilmente agli stanziamenti del PRIN, il principale programma di finanziamento ai progetti di ricerca di base (92 milioni per il 2015). Questa cifra non va evidentemente confusa con gli stanziamenti complessivi in ricerca e il post resta una bufala pericolosa che confonde le idee alla gente.
Se proprio volete saperlo, anche se l’autore avesse specificato di alludere ai PRIN, il messaggio ” tutta la ricerca italiana vale quanto il cartellino di un centravanti” sarebbe stato pura retorica, buona forse per un talk show del pomeriggio ma non certo per una discussione seria. Sono d’accordo che i miseri 92 milioni del PRIN siano un campanello di allarme sui problemi della ricerca. Ma il PRIN rappresenta un millesimo della spesa pubblica in R&S. Dovremmo allora chiederci in primis dove finisce il 99 per cento dei soldi per la ricerca. In particolare, come mai ci sono così poche risorse da spendere in bandi e grant per spese correnti, come dovrebbero essere i PRIN? Il concetto ossessivamente ripetuto in questo blog, è che la ricerca italiana è una portaerei con l’equipaggio assunto a tempo indeterminato, ma con pochissimi soldi per il carburante e le munizioni. In altre parole, le spese strutturali e incomprimibili (stipendi e spese fisse, per capirsi) pesano così tanto sul bilancio totale che difficilmente avanzano risorse per altri investimenti. Fermarsi ai 92 milioni dei PRIN senza pensare a dove finisce il grosso dei soldi per la ricerca è quindi un esercizio ideologico povero in strategia, e non porta molto lontano. Auspicare maggiori finanziamenti che vengono poi destinati ad assumere organici e coprire le spese fisse, e non a creare grants, è folle. Il dibattito, semmai, dovrebbe riguardare la rigidità finanziaria del sistema ricerca. Prima di lamentarsi, bisogna chiedersi come liberare una quota di spesa fissa e aumentare quella di finanziamenti per le spese correnti. Tutto il contrario della retorica della stabilizzazione, che a quanto pare, va per la maggiore anche in campo politico. Anche perchè è quella più facile da raccontare, che porta più consenso e magari qualche voto.
Non è quindi vero, neanche lontanamente, che l’Italia spenda in ricerca meno di quanto costi un giocatore di calcio. Eppure queste bufale girano soprattutto fra i ricercatori.
Il meme di Higuain, ad esempio, compare in heavy rotation nelle bacheche di tanti scienziati che seguo e stimo. Qualcuno l’avrà già messa da parte per alla prossima, ennesima tavola rotonda sui guai della ricerca italiana.
Perchè proprio loro ci cascano?
Potrei dire, confortato da una certa esperienza, che molti ricercatori, anche bravissimi, sanno poco di politiche della ricerca e si limitano spesso a piangere per i pochi fondi che vedono arrivare. E questo è sicuramente un motivo che li spinge a condividere anche informazioni farlocche. Come tutti gli umani, anche gli scienziati cadono nella trappola tipica delle bufale: se una notizia conferma un bias o un luogo comune che abbiamo in testa, si diffonde velocemente, anche se è falsa.
Le bufale si muovono spinte dal motore dell’ideologia, e nel dibattito sui finanziamenti alla ricerca, l’ideologia e i bias vanno a manetta.
E’ forse per questo che nel mondo del debunking scientifico le bufale sui finanziamenti alla ricerca godono di una specie di immunità. Mentre c’è una comunità molto attiva nel disinnescare –giustamente-le notizie farlocche sui vaccini, gli OGM o le scie chimiche, le bufale come quella di Higuain viaggiano indisturbate senza che nessuno le contesti. Anzi spesso vengono diffuse, come in questo caso, dagli stessi scienziati.
A questo punto penserai: “Ma insomma, anche investire cento, mille Higuain in ricerca è troppo poco!”. Entrare nel merito non è lo scopo di questo post ma se volete l’ho fatto altrove nel mio blog. Diciamo che il tema dei finanziamenti è una piaga aperta del sistema di ricerca italiano, ma non l’unica e non certo la peggiore. Serve a poco infatti chiedersi quanto si spende se non ci si domanda anche come, dove e con quale strategia, e questo è un punto dolente nel dibattito.
Comunque la si veda, non si fa un favore alla scienza facendo girare sui social le figurine di Higuain corredate da numeri farlocchi.
Chi ha a cuore la ricerca dovrebbe cercare di spogliarsi dalla retorica e dal conflitto di interessi e ragionare razionalmente, da scienziato, sulla bontà dei numeri. E magari sostituire al solito piagnisteo qualche idea sulle strategie e sull’efficacia organizzativa, un fattore che oggi nell’università italiana non è da record.
PS: Applicando le metriche del calciomercato ai dati OCSE (divertitevi se volete sul file, ma non credeteci troppo) si scopre che il governo investe in ricerca nel campo della difesa poco meno di 70 milioni, questa volta, sì, meno del cartellino del fuoriclasse argentino.
Ma volete mettere un meme che dice “l’Italia spende in ricerca sugli armamenti meno del cartellini di un giocatore?”. Suona male, e magari l’autore del deme è anche giustamente, pacifista.
Università e meritocrazia: vogliamo parlarne seriamente?
Le polemiche sulla ricerca in Italia sono tutte uguali. Perchè non si riesce ad affrontare seriamente il tema della gestione della ricerca? Nell’accademia italiana esiste davvero un dibattito sulla meritocrazia?
Sono bastate poche righe scritte su Facebook da una scienziata Italiana esule in Olanda per trasformare la propaganda social del ministro Giannini in un epic fail. Roberta D’Alessandro ha ragione ed è stata efficace. Su facebook ha praticamente fatto i nomi di chi le ha rubato il posto. Ma c’è da scommettere che una volta spenti i riflettori dei media, cioè fra un paio di giorni, il discorso sulla meritocrazia nelle università italiane tornerà in ghiacciaia.
Perchè non si riesce ad affrontare seriamente il tema della gestione della ricerca, al di là della polemica estemporanea o del piagnisteo per la mancanza di fondi? I soliti sospetti, cioè i media e la politica, hanno un pò di colpa. Le responsabilità di un dibattito pubblico carente sono sempre condivise. Ma siamo sicuri che nell’accademia italiana esista davvero una riflessione sulla meritocrazia? Me ne occupo da tempo, e queste sono le mie conclusioni finora:
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Di meritocrazia (vera) l’accademia non parla quasi mai.
Gli appelli che arrivano dal mondo accademico italiano – l’ultimo gira online ed è uscito pochi giorni fa (di nuovo) su Nature – denunciano quasi sempre la scarsità dei finanziamenti pubblici e qualche volta protestanto contro l’ennesima riforma piovuta dall’alto. Difficile leggere un appello – o una proposta che non arrivi dai piani superiori dei ministeri- per liberarsi da cattedre inutili e produttive, migliorare o abolire i concorsi, legare i finanziamenti ai risultati e far posto davvero ai più meritevoli. Come se questi temi fossero secondari nel dibattito sulla ricerca (notizia: non lo sono) o rappresentassero un problema della politica e non dell’accademia.
Un’altra causa che di recente ha convinto i professori italiani a salire sulle barricate è una rivendicazione salariale. Per protesta contro il blocco degli scatti di anzianità, 300 di loro rifiutano di sottoporsi alla valutazione Anvur, che per quanto opinabile è l’unica parvenza di valutazione meritocratica della ricerca italiana. Al di là delle idee personali sull’opportunità degli scatti automatici (io li ritengo devastanti, l’antitesi della meritocrazia), siamo sicuri che nelle nostre università non ci sia qualcosa di più urgente e giusto per cui battersi?
Insomma, come in altri campi, anche nella ricerca si parla spesso di merito, ma quasi sempre come una questione NIMBY che riguarda astrattamente gli altri. Magari mi sbaglio e le nostre facoltà abbondano di professori che fra loro discutono animatamente su come far posto ai più meritevoli. Se per loro è davvero una priorità e hanno un piano in testa, sarebbe meglio che lo facessero sapere.
2. La retorica guerresca non si adatta alla ricerca (scienziati, dovreste saperlo!)
Nessuno nega che la carenza di fondi sia un problema serio. Ma chi lavora in università tende a focalizzarsi solo sul tema dei finanziamenti, mettendo in secondo piano i difetti interni al sistema e trattando con sufficienza le critiche che arrivano da fuori.
La resistenza alla critica si concretizza spesso con il ricorso continuo all’emergenza e alle teorie del complotto contro la ricerca libera. Alcuni messaggi contro i tagli finanziari alla ricerca sembrano arrivare da una zona di guerra invece che dagli augusti corridoi degli atenei: “L’università/la libertà della ricerca sono sotto attacco! Ci vogliono demolire! Difendiamo la ricerca pubblica!”
La passione è sempre un valore, anche in comunicazione. Ma prima di fomentare l’idea opinabile di un attacco alla ricerca (da parte di chi?) sarebbe più utile concentrarsi sulla minaccia interna che sicuramente pesa sull’attuale sistema, e cioè la carenza di meritocrazia e organizzazione. La retorica degli appelli insiste sull’urgenza e divide la gente in squadre – con noi o contro di noi, strutturato o precario, pubblico o privato, statalista o liberista- con l’effetto di appiattire e polarizzare il dibattito.
3. L’autoreferenzialità fa più danni di ISIS
Perdonerete l’autocitazione che segue, ma serve a capire. Un anno fa scrissi un articolo su Euroscientist partendo dall’ennesimo appello dei ricercatori contro i tagli ai finanziamenti. Il pezzo riportava voci solidali ma anche critiche verso l’accademia italiana, costantemente col cappello in mano alla ricerca di fondi ma incapace di auto-migliorarsi. Si citavano anche le statistiche sui grant ERC vinti dagli italiani all’estero, gli stessi di cui parla D’Alessandro nel suo colpisci-affonda al ministro.
Per questo articolo fui tacciato di disonestà intellettuale e scarsa professionalità e sommerso di commenti provenienti da un gruppo di accademici “militanti” che in soldoni dicevano: l’università italiana funziona benissimo. I giovani bravi scappano perchè ci sono pochi fondi: datecene di più. Chi non è d’accordo vuole distruggere la ricerca pubblica e riempire l’Italia di atenei privati. Stop. A supporto delle loro convinzioni riempirono le bacheche Facebook di dati bibliometrici sulla ottima produttività scientifica delle nostre università. Quei dati sono veri, li conosco bene e li avevo citati nel pezzo ma non bastano a fotografare un sistema di ricerca (l’articolo spiegava anche perchè).
Al di là delle opinioni personali, questo esempio è sintomatico dell’autoreferenzialità in cui si crogiola il nostro mondo accademico, o almeno la parte più visibile e vocale di esso. La tendenza è ignorare le critiche e nei casi peggiori fomentare l’idea di un complotto contro la ricerca pubblica. I concorsi pilotati? Colpa delle regole ministeriali. Il numero di brevetti inesistenti? Colpa dell’industria che non contribuisce. Le fughe all’estero? Colpa dei fondi insufficienti. Il calo degli iscritti? Colpa dei media che non spronano i ragazzi alla carriera scientifica (non ci crederete ma è quello che davvero si sente dire in molte tavole rotonde). E così via con lo scaricabarile (se volete una rassegna di tutti i guai, con relativa giustificazione cercate qui ).
4. I giornalisti non portano l’elmetto
Alla costante autoassoluzione si somma la retorica della trincea. Gli amici accademici a cui chiedo spesso un feedback sui temi della meritocrazia mi danno sempre indicazioni utili, a volte critiche, ma il tono è spesso improntato all’urgenza militante: “Hai ragione, ma ora bisogna pensare ai finanziamenti, poi al resto”. Il senso è sempre quello: “Siamo in guerra. Se scrivi queste cose danneggi la causa.”
In questa guerra immaginaria, il mondo universitario si aspetta appoggio incondizionato dai giornalisti scientifici, specialmente quando si tratta di far girare appelli e comunicati stampa, ma ignora o taccia di qualunquismo quelli che vanno a sbriciare sotto al tavolo e danneggiano la causa. Magari perchè non si adeguano al piagnisteo, o magari perchè ritengono e scrivono che una scoperta presentata come sensazionale non è poi la fine del mondo.
E’ un rapporto con la stampa malsano e poco rispettoso dei ruoli: un giornalista, per quanto appassionato di scienza, non è un megafono degli scienziati. Il tema -che è internazionale ma in Italia assume contorni militanti- emerge spesso nelle discussioni fra giornalisti scientifici, e ogni tanto ne parla anche in questo gruppo Facebook. Non è ironico che bravi ricercatori, gente che si nutre della complessità del mondo e della forza dirompente del pensiero critico, si mettano l’elmetto e chiedano agli altri di fare altrettanto?
5. Ascoltare le critiche, e magari cercarle, è utile (scienziati: anche questo dovreste saperlo!)
Sia chiara una cosa: non sono un maverick rancoroso contro l’establishment accademico italiano. Al contrario, di quel mondo ho fatto parte con passione finché ho deciso di cambiare strada. Con le università ci lavoro e collaboro (pazienza se quello che scrivo farà arrivare qualche incarico in meno). Ho avuto e ho tuttora il privilegio di frequentare ricercatori di valore assoluto che lavorano, scoprono, pubblicano e si guadagnano la pagnotta in Italia, e meriterebbero di più. Insomma, se dovessi basarmi solo sulle tantissime persone fantastiche che conosco, sarei il fan più sfegatato dell’università italiana e dei suoi abitanti. Ma chiunque abbia frequentato il sistema universitario ne conosce anche i lati perversi e appiccicosi, e non si possono ignorare le moli di informazioni e dati oggettivi che tracciano un quadro inquietante del sistema ricerca.
E’ l’amore per la scienza a farmi dire che la ricerca pubblica vera si difende meglio con una critica documentata, anche feroce, che con cento militanti pronti a morire per la causa. Si difende anche ridicolizzando l’ipocrisia di chi con una mano chiede più fondi e con l’altra si chiude gli occhi di fronte alla palese mancanza di meritocrazia nei propri corridoi.
Si può tutelare la ricerca come bene collettivo e proprio per questo confutare l’idea para-sindacale e devastante che i posti fissi a vita, le infornate, la stabilizzazione e gli stessi concorsi siano la strada giusta e risolutiva da percorrere (vogliamo davvero assumere precari e creare altri posti a vita che intaseranno il sistema per decenni?). Vorrei poter gioire all’idea che le facoltà improduttive chiudano per mancanza di fondi senza per questo venire etichettato come membro di un complotto finalizzato a distruggere l’università pubblica.
6. Non c’è bisogno di distruggere l’università pubblica: si sta divorando da sola.
Il vero nemico della ricerca, se c’è, si annida nelle facoltà e si chiama: concorsi pilotati. Si chiama: corruzione. Si chiama: posto fisso a vita. Si chiama: autoreferenzialità. Si chiama: finanziamenti a pioggia (quando c’erano). Si chiama: rettori e decisori pericolosamente vicini alla politica. Si chiama con i tanti nomi che gli amici universitari conoscono meglio di me.
Chi lavora nell’università farebbe bene a togliersi l’elmetto, prendere la scopa e se ce n’è bisogno fare pulizia nei propri atenei. Non si può sempre dare la colpa agli altri.
I ministri, i politici, vanno e vengono. Roberta D’Alessandro e la sua stoccata su Facebook fra tre giorni saranno dimenticati. Solo dal mondo accademico – non da riforme piovute dai ministeri- potrà arrivare un vero cambiamento, se davvero qualcuno lo vuole.
Dammi il tuo DNA e ti dirò chi sei
Per chi è interessato al tema che vado raccontando un pò ovunque ecco un bel video del seminario Science & the City 2 con Paolo Gasparini e il sottoscritto condotti da Fabio Pagan. Si parla di genomica di consumo, 23andMe, Snoop Dogg, Angelina Jolie e molto altro.
Il format di Science & the City è uno dei miei preferiti perchè prevede talk di 10 minuti cronometrati e lascia quindi larghissimo spazio alla discusssione.
Date un’occhiata anche ai video delle altre serate, sono tutte davvero interessanti e ben fatte. Ringrazio il pubblico di Trieste, l‘ICGEB, Mauro Giacca e tutti gli organizzatori. #genetica #dna
Di quale invenzione dovremmo pentirci?
C’è una tecnologia dovremmo disimparare se potessimo? Se me lo chiedete – ma potrei anche pentirmi della risposta- metterei al primo posto gli smartwatch e l’immobilizer dell’auto, che recentemente mi si è ritorto contro bloccandomi. Comunque questa domanda me l’ha fatta seriamente Monica Panetto per un articolo su Bo. La risposta vi stupirà. O forse no. Buona lettura.
Tecnologia: rinunciarci, ma a che prezzo?
di Monica Panetto
Bo, 8 GENNAIO 2016
Facciamo un gioco. In barba al progresso scientifico dell’ultimo secolo e oltre, pensate a una tecnologia di cui fareste volentieri a meno. Una tecnologia a cui per qualche ragione si dovrebbe rinunciare. Che si dovrebbe “disimparare”.
C’è chi senza esitazione farebbe volentieri a meno del cellulare, per evitare di essere rintracciabile ovunque, perché qualche volta “è bello anche non esserci”. Altri eliminerebbero la catena di montaggio perchè solo in questo modo probabilmente si riuscirebbe realmente a rallentare, a riappropriarsi del proprio tempo. Qualcuno punta il dito contro i videogame: mentre il gioco in gruppo ha un aspetto formativo ed educativo importante, spendere il proprio tempo giocando da soli di fronte a un monitor è un ernorme spreco di intelligenze, di risorse, di denaro specie se pensiamo che sonoi ragazzi che li usano maggiormente e che sono proprio loro ad avere le maggiori potenzialità. Sulla stessa strada alcuni rinuncerebbero volentieri alle piattaforme sociali: si pensa di essere liberi di usare la rete come strumento di condivisione e invece è chi controlla la piattaforma ad avere il controllo degli utenti. I social network rubano tempo e privacy, la comunicazione si appiattisce e si volgarizza, spesso dietro lo schermo delle false identità. Qualcuno infine, strizzando l’occhio alla provocazione, azzarda addirittura la chirurgia estetica così tutti, a una certa età, giocano ad armi pari.
Non tutti però sono sulla stessa linea e nel porre la questione sottolineano in realtà l’importanza dell’uso che della tecnologia si fa. “Disimparare non è mai opportuno – sottolinea Marco Ciardi, docente di Storia della scienza e delle tecniche a Bologna – è sempre bene conoscere. Che cosa va utilizzato, però, dipende da una nostra scelta. Come diceva Bacone, la tecnologia non è né positiva né negativa, dipende dall’uso che ne facciamo (perciò diventa una questione etica). Lo stesso concetto sarà ripreso da Richard Feynman nel Novecento. In sostanza, la conoscenza delle tecniche è bene che sia alla portata di tutti, altrimenti si rischia che pochi sappiano maneggiarle. Però possiamo decidere da che parte andare. Per esempio, in campo ambientale noi dovremmo puntare tutto sul solare e le energie a basso impatto, e rinunciare a carbon fossile e nucleare. Ma non per questo dobbiamo rinunciare al nucleare in altri campi, o addirittura disimparare”. Sulla stessa linea Daniela Lucangeli del dipartimento di Psicologia dello sviluppo e della socializzazione dell’università di Padova: la tecnologia in sé è un amplificatore cognitivo, sociale, relazionale e come ogni cosa quando viene amplificata può essere pericolosissima. Secondo la docente ciò che si deve creare è un sistema educativo in grado di gestire la tecnologia come una risorsa, di trasformarla in strumenti di crescita invece che di rischio. Ribadisce che si tratta di una questione di etica della scienza e della ricerca perché al potenziamento degli strumenti tecnologici deve corrispondere un uso più consapevole a livello sociale.
Secondo alcuni, dunque, nessuna tecnologia è da abolire perché anche quelle che hanno applicazioni che giudichiamo inutili o dannose servono, o sono servite, a progredire altrove. A sottolinearlo in questo caso è Sergio Pistoi, giornalista scientifico vincitore nel 2013 del Premio Galileo con Il Dna incontra Facebook. “Sarebbe facile auspicare che sparissero le tecnologie militari, ma si tratta di scoperte che hanno avuto un impatto incredibile in moltissimi campi, pensiamo a internet, al Gps o a molti materiali che usiamo. L’innovazione è un ecosistema complesso, se nel corso della sua storia ne togliessimo un pezzo qualunque magari vedremmo sparire intere fette della nostra tecnologia, un po’ come succede nelle foto di Ritorno al futuro dove Mc Fly scompare perché qualcuno ha alterato il corso degli eventi. No, non toccherei nessuna tecnologia, neanche la più stupida”. Pistoi sottolinea che già troppa gente sulla base di rischi presunti, ideologia o religione cerca di imporre blocchi a tecnologie promettenti, specialmente nel campo biomedico e genetico. È risaputo che ogni scoperta si presta agli usi più intelligenti e a quelli più idioti. Se ci sono abusi, sono quelli che vanno affrontati, caso per caso. Perché c’è il rischio, come sottolinea Telmo Pievani docente di Filosofia delle scienze biologiche all’università di Padova, che l’uso di una tecnologia possa tirare fuori il peggio della nostra già imperfetta specie.
Roberto Defez, ricercatore del Cnr e autore di Il caso Ogm. Il dibattito sugli organismi geneticamente modificati, esprime la stessa fiducia nei confronti del progresso scientifico. “Amo troppo il genere umano per pensare che ci sia qualcosa di sbagliato e di rimovibile dal suo percorso evolutivo”. Eliminare cose tremende vorrebbe dire far mancare al processo di evoluzione delle specie una parte dei meccanismi che ne consentono la selezione. “Potrei solo fare un auspicio. Mettendo in fila le stragi di Beslan, del Ruanda, di Utoya o dei bambini morti in questi giorni nei naufragi, spero di non perdere la capacità di commuovermi. Niente altro”.
Monica Panetto.
Link all’articolo originale: http://www.unipd.it/ilbo/tecnologia-rinunciarci-che-prezzo
The Million Click Baby Reloaded
Nina, affetta da una malattia rara, grazie al suo blog è diventata una piccola star del web. Cosa sono i social networks di pazienti, e qual’è il loro impatto sulle famiglie e la ricerca? Su Medium ho ripubblicato la versione integrale dell’articolo uscito a dicembre 2014 su Wired.
A proposito, Buone Feste a tutti!
Il cibo da Pinocchio a Masterchef, passando dal DNA…e Breaking Bad
Cosa c’entra il mitico Walter White di Breaking Bad con il cibo del futuro? E’ una delle cose che raccontiamo nella conferenza-spettacolo DA PINOCCHIO A MASTERCHEF, PASSANDO DAL DNA, una nuova avventura che ho il piacere di intraprendere insieme allo scrittore e agronomo Antonio Pascale.
Abbiamo deciso di unire i due temi che siamo abituati rispettivamente a raccontare: da una parte il cibo e il passaggio fra il racconto della miseria di Pinocchio e quello dell’abbondanza di oggi (la prima parte del titolo, già usato da Antonio nelle sue conferenze). Dall’altra la mia immancabile fissazione con il DNA e la cultura pop. E così abbiamo messo insieme un’ora di clip, azione e intrecci interessanti.
Il risultato ci piace e ci diverte un sacco ma sarà il pubblico a giudicare. Primo esperimento giovedì 19 Novembre con i ragazzi delle superiori di Teramo in occasione degli Open Days dell’ ITS Agroalimentare e nell’ambito del progetto regionale In-For Marketing Agroalimentare. Se siete da quelle parti, ci vediamo là.
https://youtu.be/XJt7cF6KniU