Tutto quello che un antivax deve sapere.
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I virus* se ne strabattono il cazzo delle tue opinioni. Sappilo.
* ma anche i batteri
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(Mi scuso per il turpiloquio ma i virus sono maleducati e io riferisco)
AAA. Qualcuno mi cercava?
Cara Antonella Viola,
eccomi qua. Forse non mi conosci, ma rispondo al tuo annuncio da poco apparso sul Giornale dell’Università di Padova (AAA giornalismo scientifico cercasi) dove lamenti lo stato esecrabile della comunicazione, chiedendoti: “dove sono i giornalisti scientifici”?
Beh, eccone uno. Per esempio.
Mi permetto di darti del tu perché siamo colleghi, o almeno lo siamo stati finché ho lavorato come ricercatore, prima di dedicarmi alla comunicazione scientifica, pur mantenendo felicemente sempre almeno un piede nei laboratori.
Fino al 2010 ho contribuito come consulente alla comunicazione scientifica e al monitoraggio della ricerca Telethon, una delle organizzazioni che ha premiato i tuoi meritevoli progetti scientifici. Un giorno di qualche anno fa ero proprio al V.I.M.M., l’ottimo istituto di ricerca dove lavori, a tenere un workshop di comunicazione per i giovani ricercatori.
Questo per dirti che, anche se facciamo mestieri diversi, non ti scrivo dalla Luna ma da un mondo tutto sommato vicino al tuo, alla tua formazione e sensibilità.
Quello che ti racconterò forse non ti piacerà e non ti troverà d’accordo ma è l’analisi tecnica di un giornalista e comunicatore che è anche ricercatore, da sempre innamorato della scienza e dei suoi complessi risvolti. Una voce indipendente e, credo, sufficientemente temprata nell’agone comunicativo.
Il tuo titolo-annuncio amaramente ironico cela in realtà (per chi non l’ha letto) un commento accurato e sinceramente preoccupato sulla disinformazione scientifica e il “bombardamento“ di articoli e trasmissioni deliranti dove la scienza è maltrattata e comunicata in modo demenziale.
Se fosse solo questo, il tuo sfogo sarebbe un’ incontrovertibile (e condivisibile) cronaca dei fatti. Che tuttavia, lo dico senza ironia, si aggiungerebbe al chilometrico cahier de doléances di accademici che in vent’anni, da quando faccio questo lavoro, mi è capitato di sentire. Perché – e questa è una prima notizia che devi sapere- il bombardamento di cavolate scientifiche non è recente come scrivi e non nasce neanche con Facebook, anzi.
Nei miei ventennali archivi c’è ormai un piccolo esercito di arrabbiatissimi scienziati che, quando i social erano ancora fantascienza, già deplorava la dilagante disinformazione scientifica nei media usando parole che potrebbero essere la fotocopia delle tue, per poi tornare ordinatamente, come è giusto che sia, al proprio lavoro. Una sequela di sfoghi accademici che però hanno sempre lasciato le cose com’erano, anzi forse un po’ peggio. Perché lo sfogo è legittimo, ma (lo dico sempre con grande rispetto) commentare pubblicamente un argomento che non si conosce, che si tratti di scienza, vaccini, calcio o comunicazione, è sempre sbagliato e talvolta dannoso.
Nel tuo articolo ritrovo purtroppo alcuni luoghi comuni che gli scienziati, anche quelli bravi e in buona fede come te, trovano irresistibili ma che risultano infondati e, peggio mi sento, sfociano in uno schema ripetitivo ben noto a chi fa questo mestiere.
Il primo clichè consiste nell’osservare i disastri dei media e concludere che non esistono bravi professionisti nel giornalismo scientifico. Alla domanda retorica (“Dove sono i giornalisti scientifici?” – la risposta implicita è ovviamente: non ci sono!) segue una soluzione apparentemente logica “C’è un disperato bisogno- scrivi- di giornalisti scientifici seri e competenti, adeguatamente formati a livello universitario e post-universitario, ed esorto i mezzi di comunicazione a essere responsabili e non affidare dei temi così difficili e così delicati a persone impreparate”.
Insomma, prima ancora di verificare se davvero ci sia carenza di talenti, si fa già strada la ricetta: formiamo schiere di giornalisti scientifici, naturalmente all’interno dell’Università, e popoliamo con essi il pianeta dell’Informazione!
Cosa c’è che non va, mi dirai?
Per cominciare, c’è che il ragionamento si basa su una premessa sbagliata. Non è vero che non ci siano bravi giornalisti scientifici, anzi.
Chi conosce il mondo della comunicazione scientifica sa bene che in giro ci sono molti professionisti che hanno proprio le caratteristiche di cui parli. Gente preparata, in grado di valutare le fonti e raccontare la notizia scientifica in modo accurato. Gente che conosce e usa Pubmed come dici tu (per inciso, Pubmed è solo uno strumento fra tanti, non la bacchetta magica del buon giornalista scientifico come molti ricercatori pensano). Di questi professionisti ne conosco un bel pò, diciamo abbastanza da soddisfare il fabbisogno italiano dell’informazione scientifica per qualche anno. Molti escono da master di ottimo livello, altri, come me, si sono formati con l’esperienza. Se li cerchi, li trovi. Se non li trovi, sarà mio piacere fartene conoscere qualcuno.
Dove sono? Con le dovute e notevoli eccezioni, sono quasi tutti freelance, tenuti a debita distanza dalle redazioni che contano. Professionisti seri che, piuttosto che guadagnare 30 o 50 euro per un articolo (perché questi sono i compensi medi) fanno comunicazione in altri modi, altrettanto utili e sicuramente più sostenibili. Gente che, lontano dei riflettori, e fra un incarico pagato e l’altro riesce perfino a mettere a disposizione, in rete e spesso pro bono, informazioni preziose che contribuiscono a ribaltare in meglio la percezione pubblica, come nel caso di Stamina. Spesso rimediando all’approccio benintenzionato ma comunicativamente devastante di alcuni scienziati.
Insomma, cara Antonella, capisco la tua frustrazione ma guardati intorno. C’è bisogno di formare nuove schiere di comunicatori scientifici quando neanche si usano quelli che già esistono? E, soprattutto quali atenei hanno le competenze necessarie per farlo? Anche le mie, se non si fosse capito, sono domande retoriche.
Forse non lo sai, ma a parte due o tre rispettabilissimi corsi che tutti nell’ambiente conoscono, la penisola pullula di master di comunicazione scientifica fallimentari, tenuti da scienziati con zero titoli in campo comunicativo. Corsi che aprono come funghi sulla base della presunta mancanza di talenti (ma più spesso per gonfiare l’offerta formativa) e altrettanto rapidamente, quando va bene, chiudono per mancanza di iscritti (perchè alla fine neanche gli studenti sono così fessi da pagare per un master di cartone). Potrei raccontarti una miriade di case-studies divertenti o agghiaccianti, dipende dai punti di vista.
E qui arrivo al terzo luogo comune che ritrovo, almeno in parte nelle tue parole: l’idea ingenua e paternalista secondo cui tutto il problema sta nel passaggio di informazioni dall’esperto al laico, o al giornalista.
“Troppo spesso– scrivi- le nostre parole vengono fraintese o addirittura stravolte, e in questo senso dobbiamo tutti fare uno sforzo per evitare che accada, evitando toni sensazionalistici e pretendendo sempre di leggere gli articoli prima che vengano pubblicati. Ma chiudersi sarebbe un errore: mai come ora è necessario trovare il giusto modo di comunicare la scienza e spiegare il nostro metodo di lavoro, basato su trasparenza, verifica e consenso della comunità scientifica.”
Quello che scrivi è in parte condivisibile, ci mancherebbe, ma rispecchia l’immagine errata che molti scienziati hanno riguardo alla comunicazione. Non voglio tediarti con dettagli tecnici, anche se alcune idee -leggiamo gli articoli prima che vengano pubblicati!- sono irrispettose dei ruoli e comunque impraticabili nel mondo reale, come può spiegarti qualunque bravo comunicatore. Il punto essenziale è che la comunicazione pubblica non è un mondo a compartimenti stagni dove A parla a B (magari a senso unico) ma un ecosistema complesso dove l’informazione circola e prende forma.
Non si risolve tutto con lo scienziato che trova le parole e le immagini giuste per trasmettere il messaggio ad un interlocutore preparato (anche se la scelta dei messaggi, delle parole delle immagini e degli interlocutori è importante), ma esiste una catena alimentare complessa e interdipendente dove le grandi testate, quelle che scrivono quasi sempre le cavolate più seguite, sono spesso i grandi predatori in cima alla piramide.
L’ambiente accademico fatica a concepire che nell’ecosistema dell’informazione non ci sono soltanto scienziati, giornalisti e un generico pubblico da educare. C’è tutto un mondo che, ad esempio, include una serie di figure esperte (ufficio stampa, consulente, coach, stratega) che conoscono i meccanismi e possono fare da cerniera fra scienziati e media. In molti settori questi professionisti sono lo standard. Nella ricerca sono tenuti fuori, vuoi perché i centri accademici non le prevedono o le reclutano male, vuoi perché molti scienziati ritengono (a torto) di non averne bisogno.
Il sistema pubblico di ricerca, che pure sbandiera la necessità di formare e utilizzare buoni comunicatori, non contempla il profilo del comunicatore nell’Abilitazione Scientifica Nazionale e sappiamo bene quanto sia poco disposta a utilizzare, e pagare, competenze esterne che già esistono. Insomma, comunicatori bravi sì, ma not in my backyard. I veri professionisti, quelli che potrebbero fare la differenza suggerendo e implementando una strategia efficace, di solito sono tenuti debitamente alla larga dai laboratori. Al massimo vengono richiesti come moderatori o relatori una tantum per un evento, meglio se gratuito.
Cara Antonella, non voglio metterti in mezzo più di tanto, e non prenderla come una critica personale. Sei una giovane, bravissima e affermata ricercatrice ma è giusto che, dopo esserti pubblicamente espressa su un tema che non ti è così familiare, tu sappia come funzionano davvero le cose.
Devi sapere che il sistema di ricerca italiano, quello che sta alla base dell’ecosistema, quello in cui anche tu lavori e che genera le storie scientifiche di cui poi gli altri parlano, con una mano sbandiera la necessità di una comunicazione responsabile ed efficace e con l’altra svilisce il lavoro dei bravi professionisti. Li tiene fuori dalla porta, ignorandone l’esistenza e preferendo “formare” professionalità fra le mura di casa dove queste competenze però non ci sono neanche fra i docenti. E’ la generazione spontanea delle competenze. Lo sforna-giornalisti automatico per abiogenesi. Un delirio che si avvita su se stesso come le scale di Escher.
Se ti serve un esempio fra tanti, puoi fare qualche chilometro da Padova e andare a Trento, dove la Provincia Autonoma ha finanziato un bando da 1,2 milioni di euro per 4 grant destinati a progetti di “comunicazione della scienza”. 300 mila euro a progetto. Un bel gruzzolo. Riservato però a post-doc a cui non è richiesta, per bando, nessuna competenza comunicativa. Non sto dicendo che siano soldi buttati via o che i progetti non saranno validi (questo si vedrà), ma è davvero il sistema giusto? Accetteresti che un grant di ricerca venisse affidato a uno che fa, per dire, l’assicuratore o l’idraulico, senza alcuna competenza scientifica? Quando succede, il mondo accademico grida giustamente allo scandalo. Chissà perchè, invece, quando si parla di comunicazione tutto fa brodo. In fondo, dai, che ci vuole a comunicare? Qualche mese di formazione e oplà, ecco un nuovo professionista bello e pronto. La generazione spontanea delle competenze nel suo massimo splendore.
Molte Università, e perfino il Ministero della Salute che dovrebbe dare l’esempio, affogano nella deriva di una comunicazione dilettantesca e autoreferenziale senza la minima traccia di strategia. La famigerata terza missione universitaria, a cui spesso ci si dedica senza aver completato con successo la prima e la seconda, è – con le dovute eccezioni – quasi sempre appannaggio di accademici e dei loro collaboratori gratuiti o malpagati, con risultati conseguenti. Progetti europei milionari di divulgazione sono selezionati da comitati di accademici e affidati a ricercatori senza alcuna competenza comunicativa.
Scienziati che si credono comunicatori, quando sono in realtà creatori di contenuti, continuano ad andare in giro come schegge impazzite senza alcun piano organico, confondendo la divulgazione con la persuasione, lasciando poi ai veri comunicatori il compito ingrato di raccattare i cocci di una percezione pubblica a pezzi.
Sia chiaro: il senso di sfiducia che provi verso molti reporter è comprensibile e pure giustificato. L’assenza di un interlocutore preparato e affidabile è un fattore di cui bisogna tenere conto quando si decide se concedere o meno un’intervista. Peccato che –nella mia esperienza- più grande e visibile la testata, più è raro che uno scienziato declini un’intervista o un’apparizione TV, pur sapendo benissimo che dall’altra parte del microfono magari si trova un cialtrone.
Cara Antonella, scrivi che voi scienziati siete stufi, e hai ragione. Ma se ascolti i miei colleghi bravi, e dai un’occhiata a qualche forum specialistico vedrai che anche da queste parti siamo stufi di sentire, da anni, generazioni di scienziati che si lamentano, magari improvvisandosi esperti di comunicazione, senza guardare cosa succede nelle loro stanze.
Capiamoci: se lo sport è quello di dire quanto la comunicazione mediatica faccia schifo, mi iscrivo anche io e potrei vincere il campionato. Per quello che mi riguarda, non scrivo un articolo in italiano da un paio d’anni. Dico solo che il tempo che molti amici ricercatori passano a lamentarsi potrebbe essere meglio impiegato, ad esempio, per dirottare qualche euro per una giornata di formazione seria che non sia la solita e piagnosa tavola rotonda sulla comunicazione. Per riflettere sulle figure che esistono nell’ecosistema e i rispettivi ruoli. Per procurarsi una consulenza seria sulle strategie, un’occasione di coaching, o per finanziare un progetto di comunicazione serio.
Dici giustamente che gli scienziati devono aprirsi alla comunicazione: hai ragione. Questo significa tirarsi su le maniche e ammettere di non avere le competenze. Accettare un contributo esterno, trovando le risorse per includere professionisti capaci nel processo. Siamo stufi di sentire lamentele da parte dei ricercatori e poi, quando offriamo collaborazione professionale, sentirci rispondere le solite menate sulla burocrazia e sulla mancanza di soldi e tempo.
Cara Antonella, se il titolo del tuo post (AAA giornalismo scientifico cercasi) diventasse una vera offerta di lavoro da parte di chi fa scienza, ti assicuro che le cose migliorerebbero assai E’ giusto che tu sappia che esistono tanti bravi professionisti, che sono a disposizione, se solo il sistema di ricerca in cui lavori decidesse di usarli. Te ne posso presentare parecchi, se un giorno come spero ci troveremo davanti ad un buon caffè.
Perché i divulgatori non sono comunicatori (Se pensi di essere un comunicatore, ti conviene leggere).
Al corpulento sergente che lo malmena, Tuco Ramirez, il bandito de “Il buono, il brutto, il cattivo” risponde:
“I tipi grossi come te mi piacciono perché quando cascano fanno tanto rumore!“.
Il sergente, naturalmente, farà un brutta fine.
L’avvertimento di Tuco è utile per tutta la comunicazione ma è nel mondo dei social che diventa oro. Nei social se sei bravo puoi raccogliere un sacco di followers. Se però non li sai gestire, è un attimo che ti si rivoltino contro come droni impazziti. Più sei grande, più il botto è forte se non fai attenzione.
Se ci pensate, esiste un sacco di gente in gamba e in vista che per una frase, magari scritta in buona fede ma senza pensarci troppo, si è trovata nell’occhio del ciclone social. A volte il tonfo è grande e dai social si ripercuote perfino sui canali tradizionali.
Gli scienziati/divulgatori non fanno eccezione. Anzi, direi che sono una categoria ad alto rischio. Alcuni hanno profili molto visibili (e questo è un bene), si danno da fare a trattare temi controversi (bene anche questo), ma non hanno la competenza comunicativa per affrontare le inevitabili crisi e conflitti che un profilo pubblico genera ( e questo, l’avete capito, non è un bene).
Un esempio recente riguarda Roberto Burioni, medico e scrittore noto al grande pubblico per la sua opera di divulgazione sui vaccini.
Si è scatenato il putiferio dopo che il medico, stufo di rispondere ad anti-vax e complottisti assortiti, ha chiuso i commenti sul suo profilo Facebook.
Non è finita: ha motivato la sua decisione con una di quelle frasi che smuovono le acque procellose dei social: “la scienza non è democratica”. Apriti cielo!
Tranquilli, non mi lancerò in discussioni su scienza e democrazia. Mi interessa invece, come sempre, decifrare l’aspetto comunicativo di queste vicende onde evitare, magari anche a voi che leggete, errori potenzialmente fatali.
Questo post prende ispirazione da un interessante scambio che ho avuto con lo stesso Burioni in campo neutro, cioè nella bacheca Facebook della collega Barbara Gallavotti (ringrazio tutti per il lucido e pacato confronto).
Burioni verrà qui presentato suo malgrado come case-study. Il caso è interessante perchè dimostra come basti davvero poco a trovarsi nei guai, anche per un opinion leader preparato e avvezzo al confronto come lui.
Burioni è chiaramente un esperto e un autore-divulgatore. Ha scritto un libro di discreto successo, va in TV ed ha un buon seguito sui social. Volendo è quello che si dice un influencer.
Fin qui tutto bene: ha raggiunto l’obiettivo di far sentire la propria voce, e di riscuotere un certo successo personale.
Allora cosa c’è che non va? C’è che il pubblico, una discreta parte dei media gli attribuisce inopinatamente il ruolo di portavoce della Scienza, della Medicina, della Ragione, di quello che volete. Lui stesso pensa, o forse pensava, che quel ruolo gli calzi a pennello.
Nel vuoto lasciato dalla comunicazione istituzionale finisce che esperti, gli autori/divulgatori, si caricano addosso una figura professionale che non è la loro ed è invece tipica del comunicatore. Questo genera aspettative errate, delusioni, passi falsi e infine, talvolta, il tonfo.
La causa di molti epic fail comunicativi è l’incapacità di distinguere il ruolo dell’ esperto/divulgatore/autore da quello del comunicatore.
Se la questione vi sembra ancora oscura, il motivo è che la confusione imperversa, purtroppo, anche fra molti addetti ai lavori. Cerchiamo di chiarire.
Ho scelto questi termini piuttosto arbitrari: autore/divulgatore e comunicatore. Se non vi piacciono, non fissatevi con le parole e chiamateli come vi pare. Basta che ci capiamo sulle differenze:
Autore/divulgatore è colui che porta la sua voce e il suo messaggio al pubblico. Gli interessa raccontare. La divulgazione è il suo fine.
Comunicatore è il professionista che porta il messaggio di qualcun altro, ad esempio un committente istituzionale. Il comunicatore è uno stratega, con un piano e una competenza specifica. Per il comunicatore la divulgazione non è un fine ma uno strumento. Gli interessa l’effetto finale della comunicazione sulla gente.
Queste due figure possono anche convivere nella stessa persona (è il caso del sottoscritto, che fa alternativamente i due lavori di giornalista-scrittore e consulente per la comunicazione). Si tratta però di ruoli assolutamente distinti.
Vediamo meglio:
- Se scrivo un libro/articolo/documentario sui vaccini, sul DNA, sulla storia del tennis o quello che volete, se vado in giro a fare conferenze per conto mio, sono un autore/divulgatore.
- Come autore/divulgatore (includiamo nella categoria anche il mestiere di giornalista) ho il dovere di raccontare cose vere. Se sono bravo posso anche sperare di cambiare la testa della gente, diventare famoso e vendere un sacco di copie. Ma non ho un piano preciso, non sto dentro ad una strategia. Sono semplicemente uno che ha una storia e la racconta.
Se il ministero Pinco Pallo, l’Università Tizio-Caio o la ditta Acme lanciano una campagna di comunicazione, ecco che entra (o dovrebbe entrare) in gioco un comunicatore professionista che:
- elabora un piano di comunicazione con obiettivi e strategie chiare;
- implementa le azioni previste dal piano;
- valuta il raggiungimento degli obiettivi con metriche misurabili tipo: quante persone che prima non facevano una cosa ora la fanno grazie alla mia campagna? Quanti hanno cambiato percezione? E così via.
Notate le differenze? Eccone alcune:
- L’autore non ha necessariamente un piano strategico e obiettivi chiari e misurabili; il comunicatore deve, o dovrebbe, averli;
- All’autore interessa comunicare un messaggio; al comunicatore interessa l’effetto finale e misurabile della comunicazione sulle abitudini o le percezioni del pubblico;
- L’autore risponde al suo pubblico (se è il caso anche alla legge) di quello che dice; il comunicatore risponde dei risultati della comunicazione rispetto agli obiettivi prefissati, di solito al committente.
- Il bravo comunicatore si vede poco. Lavora in silenzio e nell’ombra, come i personaggi di Clint Eastwood. Ci sono comunicatori sconosciuti ai più, che magari in una delle loro campagne hanno avuto più successo di dieci libri di autori in vista, senza per questo togliere nulla a questi ultimi e alla loro bravura.
In questa rara immagine: un autore/divulgatore messo a fare il comunicatore
Se prendi un bravo autore/divulgatore e gli fai fare il comunicatore hai in mano una potenziale ricetta per il disastro. Come Clint Eastwood che si fuma il sigaro davanti alla dinamite.
Faresti riparare i freni della macchina al tuo commercialista? Il rischio è evidentente, sono mestieri diversi. Eppure succede, tutti i giorni.
Succede che il pubblico, e anche molti addetti ai lavori, finiscono col rimproverare Burioni per aver chiuso le comunicazioni sulla sua bacheca — un gesto certamente poco inclusivo — dimenticando però che Burioni è un autore/divulgatore, non un comunicatore.
E’ un vizio di molti autori/divulgatori sollevare un tema spinoso e poi, quando magari arriva la bufera di commenti e post, ritirarsi per tornare alle proprie occupazioni. E’ un atteggiamento irritante, specialmente per chi dopo deve raccogliere i cocci di una comunicazione improvvisata, ma è comunque legittimo.
Sono dell’idea infatti che un autore/divulgatore abbia tutto il diritto di andarsene, oppure chiudere i commenti, bannare chi gli pare sulla propria bacheca o sparire dagli schermi nel mezzo di flame che lui stesso ha iniziato. Ma solo finchè non pensa di essere un comunicatore.
Nel mio ruolo di scrittore o nel follow up dei miei articoli, stacco spesso la spina alle teste calde: come autore/divulgatore non ho tempo e voglia di litigare con i fanatici o gli sfaccendati anti-tutto. Taglio e banno silenziosamente molti temibili individui che vedo poi sfogarsi nelle bacheche degli altri.
Come comunicatore, invece, questo non posso farlo.
Reazioni che per un autore sono comprensibili, come urlare la propria rabbia o chiudere le comunicazioni quando il gioco si fa duro, per un comunicatore sono un fallimento professionale.
Se sei un comunicatore, non puoi battere in ritirata, mollare il committente, dimenticare l’obiettivo e rinunciare.
Nella mia carriera da consulente ho lavorato dietro le quinte di campagne anche toste. C’era un periodo in cui ricevevo quotidianamente minacce fisiche dagli animalisti. Ma avevo una strategia, un piano B e un piano C che prevedevano questa evenienza e le relative contromisure. La testa nella sabbia non è mai un’opzione quando fai il comunicatore.
Nel marasma di ruoli finisce che anche i diretti interessati perdano la bussola.
Molti giornalisti scientifici rifiutano giusamente l’idea di essere dei portavoce della ricerca, ma è pieno di altri colleghi che in perfetta buona fede si mettono in trincea, dimenticando il loro vero ruolo di watchdog.
Anche gli scienziati-divulgatori navigano a vista, confondendosi alla grande con i comunicatori.
E’ vero che data l’infima qualità di molte campagne istituzionali (ho già scritto di fallimentari campagne del ministero della salute) è facile per un bravo autore credere di avere fatto centro là dove persino i comunicatori di professione hanno fallito.
Ma è solo un bias cognitivo: non trasforma un autore in un comunicatore, nè un libro, o una pagina Facebook, in uno strumento automatico di conversione. Nel vuoto comunicativo nessuno fa centro.
Soprattutto si fa strada l’ idea tossica, spacciata in giro anche da molti addetti ai lavori, che l’obbiettivo della comunicazione sia quello di coinvolgere e fare parlare la gente.
“Al contrario molti divulgatori di professione, dopo che in otto mesi sono riuscito in quello che loro mancano da dieci anni, ovvero nel fare parlare tutti di vaccini e di scienza, mi dicono che sbaglio […] ”
scrive Burioni in un post (non me voglia, lo uso solo come cavia perchè è rappresentativo di un pensiero frequente).
Come autore, Burioni ha ottime e invidiabili ragioni di essere fiero. Ma dalle sue parole, e non gliene faccio una colpa, traspare il meme tossico di cui sopra: alla fine sono meglio dei comunicatori perchè ho fatto parlare tutti di vaccini!
Lo riscrivo grande così si vede da lontano:
Chi fa una campagna di comunicazione, vuole raggiungere gli obiettivi concreti di percezione e/o azione. Il fine non è far discutere la gente.
Quanti erano gli indecisi e contrari prima e dopo la campagna? Quanti andranno a vaccinarsi prima e dopo? Questo è il tipo di risposte che cerca il comunicatore. Obiettivi, piano, strategia, azioni, verifica. Analisi SWOT. Quello ci vuole. Far parlare tutti non è fare comunicazione.
Nathaniel Mellors, hippy dialectics 2011 — matt’s gallery london monitor rome and stigter van doesburg amsterdam
Le metriche e l’idea che piattaforma non significa risultato sono un altro grande capitolo che differenzia il lavoro del comunicatore da quello del divulgatore/autore.
Da autore/divulgatore, sogno di avere più lettori e follower possibili.
Da comunicatore mi interessa di più il rappporto fra segnale e rumore.
Significa che il numero grezzo di contatti, specialmente sui social, è una metrica che ormai fa sorridere molti professionisti.
Bisogna infatti vedere la loro qualità e tipologia. E non è forse un caso se a scatenare il caso Burioni è stata la sua reazione di fronte ad una mole di commenti che considerava di bassa lega, tanto da indurlo a chiuderli del tutto. Potremmo dire che è un problema di segnale/rumore proveniente dal pubblico.
Sia chiaro, il numero di persone che ti seguono è un dato fondamentale anche per un comunicatore perchè indica l’esistenza di una forte piattaforma. Ma non dice nulla sull’effetto della comunicazione.
I libri sui temi controversi, ad esempio, vengono quasi sempre acquistati da chi ha una posizione simile all’autore.
Avere milioni di lettori o fans che già le pensavano tutti come te è un ottimo risultato per lo autore/divulgatore, ma è un fiasco per un comunicatore.
Non sto suggerendo che gli esperti o gli scienziati/divulgatori debbano rinunciare a cambiare la testa del pubblico, sottrarsi al confronto , chiudere Facebook e darsi alla macchia. Tutt’altro: il loro contributo è fondamentale nell’ecosistema della comunicazione.
Chi si pone obiettivi di conversione, però, deve pensare, appunto, di essere parte di un sistema che include altre figure che non sono sostituibili, e con le quali è opportuno collaborare.
E’ un passo difficile, specialmente quando il pubblico cresce e ti senti invincibile come il sergente di Sergio Leone. Ho fatto parlare Tuco per scherzare, nessuno se la prenda. Ho sempre augurato il meglio a tutti e specialmente ai bravi scienziati.
Le cronache, però, parlano chiaro: fare il tonfo è un attimo.
Mentre con un approccio più strategico alla comunicazione si possono evitare molti guai e raggiungere grandi risultati.
Geni a Bordo: di nuovo in tour
Fertility Doomsday
Cosa possiamo imparare dalla disastrosa campagna del ministero della salute.
Infuria la polemica sulla campagna Fertility Day del ministero della Salute, con la seconda versione dei materiali informativi appena ritirata dal sito, com’era successo pochi giorni fa con la prima versione. Se il primo tentativo è stato un epic fail, il secondo è un olocausto nucleare della comunicazione.
L’intera campagna è una rassegna sconcertante di ingenuità comunicative da cui però possiamo trarre preziose lezioni ed è questo l’obiettivo del mio post, dove tenterò un’analisi degli errori comunicativi più evidenti e di come si potevano evitare.
Prima i fatti: all’inizio di settembre trapelano i materiali di una nuova campagna di informazione del ministero della Salute, chiamata Fertility Day. L’ obiettivo sanitario, informare sulle cause dell’infertilità, è giusto e condivisibile, ma l’approccio comunicativo è dilettantesco. La campagna, pianificata malamente ed eseguita ancora peggio, scatena polemiche e sfottò un pò dappertutto ed è abortita ancora prima della partenza ufficiale fissata a fine settembre.
Lezione 1: I diversi canali di comunicazione (radio, TV, web, stampa etc…) devono funzionare sinergicamente e dare messaggi coerenti fra loro.
Già dal capitolato del bando ministeriale, in realtà, si poteva capire che le cose non promettevano bene. Ad esempio, già in fase di bando era già stabilito che la campagna TV la facesse il ministero, mentre gli altri canali sarebbero stati in mano all’agenzia appaltatrice. L’impressione, confermata dagli eventi, è che non ci fosse una cabina di regia in grado di coordinare la campagna in modo che tutti i canali (TV, radio, web, cartellonistica etc..) fossero sinergici e coerenti. Non si può pensare ad una campagna multicanale senza una strategia generale e una cabina di regia.
Lezione 2: Mai tralasciare i fondamentali, e il titolo è fondamentale.
Altro errore di base: il nome. Fertility day. E’ chiaramente sbagliato per una campagna di informazione sanitaria sull’infertilità. Nella testa del lettore fa risuonare i valori della fertilità e della riproduzione e non l’idea di un problema di salute pubblica, che era l’obiettivo della comunicazione. Anche in assenza di idee originali (alla faccia dei creativi) sarebbe stato meglio puntare sul concetto di infertilità. Infertility day? Brutto ma se non altro non avrebbe rischiato di essere frainteso come l’apologia delle Italiche Fattrici. Giornata contro l’infertilità? Meglio, o comunque un filone da esplorare in mancanza di altre idee. I titoli non cascano dall’albero: bisogna lavorarci, simulare, mettersi nei panni del target e capire l’effetto che fanno (vedi anche la lezione 3). Ai non addetti può sembrare una sottigliezza, ma vi assicuro che siamo a livello elementare di comunicazione pubblica.
Lezione 3: In fase di pianificazione bisogna sempre mettersi nella testa del target.
Altro problema che scatena la bufera: i messaggi degli opuscoli e dei cartelli sono confusi, non è chiaro dove si voglia arrivare. Peggio ancora, alcuni di essi suonano come un invito esplicito ad accelerare la riproduzione prima che sia troppo tardi, ignorando allegramente il contesto sociale in cui vengono catapultati: coppie con lavori precari, asili e strutture di assistenza carenti, maternità difficili per le lavoratrici. Un altro grave errore che un comunicatore non può permettersi: bisogna sempre tenere conto delle possibili reazioni del target, e chiedersi come il messaggio verrà interpretato in base al contesto sociale, ai riferimenti culturali, all’attualità del momento.
Le reazioni sui social alla prima versione degli opuscoli non si fanno attendere e vanno dallo sfottò alla polemica furente. Scrivendo su Internazionale, la pubblicitaria AnnaMaria Testa riassume le evidenti ingenuità comunicative della campagna, definendola “una provocazione sterile”. Testa piega bene che
“persuadere è una pratica gentile e che è sbagliato credere- come afferma qualcuno- che una campagna funzioni solo perchè se ne parla”.
Questa gliela rubiamo, è un’altra lezione importante:
Lezione 4: Il vecchio detto secondo cui “non importa come, purché se ne parli” è una cavolata.
Bisogna vedere come se ne parla, e quali messaggi si trasmettono. Anche qui siamo a livello di comunicazione strategica elementare. Tutte cose che un capo comunicazione del ministero, e un’agenzia, dovrebbero sapere.
Lezione 5: Se la comunicazione pubblica non funziona non è mai colpa del destinatario. Semmai è colpa del comunicatore.
Proseguiamo con la cronaca dei fatti. Mentre monta la polemica sui primi opuscoli , il ministro della Salute Lorenzin, nel fuoco incrociato delle critiche, non trova di meglio che dare la colpa al pubblico che secondo lei non ha capito. Altro errore pacchianissimo di chi ignora i fondamentali. Non fatelo mai.
Lezione 6: un progetto ben fatto richiede tempo e risorse adeguati. E le persone giuste, possibilmente capaci.
Più che un esperto di comunicazione, questo consiglio di buon senso ce lo potrebbe dare la nonna. E invece, in un goffo tentativo di smorzare le critiche, il ministro fa marcia indietro e annuncia in TV e sui social che l’agenzia rifarà la campagna ( gratis) in pochi giorni, al volo, come se fosse una pagnotta venuta male. Pronti per il lancio ufficiale a fine mese. Altro errore evidentemente generato dal panico
Prendete un responsabile ministeriale della comunicazione che ha pianificato male l’intero processo, forse per mancata supervisione, forse perchè ignaro/a dei principi fondamentali della comunicazione. Prendete un’agenzia “scelta” con bando pubblico che, pur avendo a disposizione mesi di tempo e un budget, partorisce un obrobrio come quello che abbiamo visto nella prima versione della campagna. Ora rimetteteli insieme per la la versione 2.0. Vi aspettate davvero che, magicamente e in pochi giorni lo stesso team rifaccia e azzecchi una campagna che aveva chiaramente fallito? In quale universo- si chiederebbe Sheldon di BBT? L’esito era segnato.
Lezione 7: mai farsi prendere dal panico. Un campagna di comunicazione (anche quelle ben progettate) può andare male. Fermati, respira e pensa. Avrai modo di rimediare. Non peggiorare le cose.
Ho solo parafrasato un vecchio insegnamento da sub, sempre valido anche fuori dall’acqua. Il Ministro Lorenzin non ha seguito questo importante precetto. Ed eccoci infatti alla versione 2.0 della campagna che, com’era prevedibile, viene fuori ancora peggio dell’originale: grafica da sagra paesana, luoghi comuni, messaggi incomprensibili e involontariamente razzisti, impiego di immagini mediocri, foto di archivio di quelle che si comprano per pochi centesimi in rete, e già strausate in giro per illustrare la qualunque (nulla contro le immagini di archivio, le uso anche io. Ma almeno spendete di più e compratele in esclusiva, visto che si può fare).
Ma veniamo alla sostanza del messaggio, che è la cosa più importante. Da una parte (“Le buone abitudini da promuovere“) c’è gente bella, bionda e chiaramente caucasica al mare (su un gommone? In spiaggia? E poi perchè al mare?). Bella gente che a quanto pare si riprodurrà senza problemi. Dall’altra , virata in color seppia, un’accozzaglia di giovinastri mezzi rasta che fumano (si fanno le canne? oppure una semplice sigaretta rollata a mano?). Loro sono “i cattivi compagni da abbandonare“. Deduciamo che da grandi non si riprodurranno, non così facilmente almeno.
Il messaggio è ancora più criptico che nella prima versione della campagna. Se prima il detonatore della polemica era stato il tema della maternità banalizzato e maltrattato, stavolta è ancora peggio, perchè fra gli amici da abbandonare si intravedono facce di colore, mentre i felici riproduttori sono tutti bianchi e biondi. Nei social (e non solo) si grida al razzismo, spero involontario, ma è la miccia che fa esplodere (anzi implodere) una campagna mal fatta, inutile e piena di errori.
Lezione 8: Una comunicazione che voglia incidere sui comportamenti deve includere degli actionable.
Anche se il pubblico fosse stato sensibilizzato positivamente da questi opuscoli, c’è infatti un altro difetto da manuale: mancano i cosidetti actionable, ossia messaggi che stimolino un’azione, suggeriscano che cosa fare, ad esempio quali comportamente adottare per combattere l’infertilità. Tipo: parlane col tuo medico. Oppure, se avesse una rilevanza sanitaria: cancella dalla rubrica tutti gli amici con i capelli rasta. Questo tipo di cose.
Gli actionable mancano nella prima e nella seconda versione. A cosa serve una campagna del genere se non mi dà indicazioni su cosa fare? Se vuoi che smetto di fumare per salvaguardare i miei spermatozoi, dimmelo chiaramente e persuadimi, non mi mettere le foto degli sballoni incitandomi ad abbandonarli come cani sull’autostrada. Neanche il materiale sul sito (almeno quello che non è stato ancora ritirato) aiuta. E’ ripetitivo, paternalistico, mal progettato e mal scritto.
Lezione 9 e 10 l’autoreferenzialità uccide la comunicazione.
Questa vicenda sarebbe un case history da portare nei corsi di comunicazione, se non fosse che queste cose succedono tutti i giorni senza che la gente lo sappia. Per un epic fail come questo che finisce sotto i riflettori, centinaia di altre Caporetto si consumano nel silenzio, sotto gli occhi sempre più mesti di chi ama la comunicazione ben fatta e responsabile.
Soltanto il ministero della Salute nell’ultimo anno ha lanciato decine di campagne informative. Quante di esse hanno centrato gli obbiettivi? Non è dato di sapere. La collega Barbara Gallavotti, con cui in tempi non sospetti scrissi un breve saggio sulla comunicazione istituzionale, commentanto su Facebook ha sintetizzato efficacemente la questione:
“di solito il risultato rimane visibile a pochi i quali si fanno i complimenti fra loro con il solito meccanismo autoreferenziale che conosciamo. Questa volta è uscito tutto fuori, ed è stato come mettere un gatto persiano in mezzo a una superstrada di Los Angeles all’ora di punta.”
E così abbiamo anche i gattini, che su Internet vanno sempre bene.
Infine i miei actionable: se vi è piaciuto questo post, condivitetelo. E se avete in mente di fare comunicazione, chiamatemi. Io e altri bravi consulenti freelance siamo a disposizione. E costiamo meno di molte agenzie.
La Bufala di Higuain e i finanziamenti alla ricerca: perché anche gli scienziati ci cascano?
Gira su Facebook un meme secondo cui tutto il finanziamento alla ricerca italiana nel 2015 varrebbe quanto il costo di acquisto di Higuain da parte della Juve: meno di 95 milioni di euro.
L’affermazione che il meme contiene è ridicola per chiunque abbia una remota familiarità con le politiche della ricerca, e direi anche con l’aritmetica.
Basta guardare le cifre OECD sul finanziamento pubblico alla ricerca per vedere che nel 2014 il governo italiano ha stanziato 8.450,4 milioni alla ricerca. Poco meno di otto miliardi e mezzo, dunque. Lo conosciuto autore del nostro meme, insomma, ha sbagliato quasi di un fattore cento. Non male.
Perché mi riferisco al 2014 e non al 2015, come recita il meme? E’ semplice: perché per il 2015 le cifre ancora non sono disponibili. E’ infatti molto difficile che questo tipo di dati sia disponibile a otto mesi dalla chiusura dell’anno.
La cifra OECD include anche una parte dei fondi generali di funzionamento delle università, ma esclude ad esempio il contributo italiano ai fondi europei del programma Horizon 2020, complessivamente (per tutta la UE) 67 miliardi di euro in sette anni.
Con un po’ di memoria e con i conti della serva ci arriva anche senza l’ OECD a capire che quei numeri sono una cavolata. Non sentiamo ripetere da anni che il finanziamento alla ricerca italiana è meno dell’1% del PIL? Dato che il PIL italiano è sui 1.400 miliardi, l’uno per cento è 14 miliardi. Ci ripetono anche (ed è abbastanza vero) che oltre la metà di questo 1% arriva dal settore pubblico. Fanno sette-otto miliardi, più o meno come sopra. Anche senza andare troppo a sfrucugliare nei numeri ufficiali, quindi, si capisce subito che siamo lontanissimi dal nostro Higuain.
Aggiunto il 29/07/2016 Come mi fa notare per email un lettore, che ringrazio, la cifra di 95 milioni allude molto probabilmente agli stanziamenti del PRIN, il principale programma di finanziamento ai progetti di ricerca di base (92 milioni per il 2015). Questa cifra non va evidentemente confusa con gli stanziamenti complessivi in ricerca e il post resta una bufala pericolosa che confonde le idee alla gente.
Se proprio volete saperlo, anche se l’autore avesse specificato di alludere ai PRIN, il messaggio ” tutta la ricerca italiana vale quanto il cartellino di un centravanti” sarebbe stato pura retorica, buona forse per un talk show del pomeriggio ma non certo per una discussione seria. Sono d’accordo che i miseri 92 milioni del PRIN siano un campanello di allarme sui problemi della ricerca. Ma il PRIN rappresenta un millesimo della spesa pubblica in R&S. Dovremmo allora chiederci in primis dove finisce il 99 per cento dei soldi per la ricerca. In particolare, come mai ci sono così poche risorse da spendere in bandi e grant per spese correnti, come dovrebbero essere i PRIN? Il concetto ossessivamente ripetuto in questo blog, è che la ricerca italiana è una portaerei con l’equipaggio assunto a tempo indeterminato, ma con pochissimi soldi per il carburante e le munizioni. In altre parole, le spese strutturali e incomprimibili (stipendi e spese fisse, per capirsi) pesano così tanto sul bilancio totale che difficilmente avanzano risorse per altri investimenti. Fermarsi ai 92 milioni dei PRIN senza pensare a dove finisce il grosso dei soldi per la ricerca è quindi un esercizio ideologico povero in strategia, e non porta molto lontano. Auspicare maggiori finanziamenti che vengono poi destinati ad assumere organici e coprire le spese fisse, e non a creare grants, è folle. Il dibattito, semmai, dovrebbe riguardare la rigidità finanziaria del sistema ricerca. Prima di lamentarsi, bisogna chiedersi come liberare una quota di spesa fissa e aumentare quella di finanziamenti per le spese correnti. Tutto il contrario della retorica della stabilizzazione, che a quanto pare, va per la maggiore anche in campo politico. Anche perchè è quella più facile da raccontare, che porta più consenso e magari qualche voto.
Non è quindi vero, neanche lontanamente, che l’Italia spenda in ricerca meno di quanto costi un giocatore di calcio. Eppure queste bufale girano soprattutto fra i ricercatori.
Il meme di Higuain, ad esempio, compare in heavy rotation nelle bacheche di tanti scienziati che seguo e stimo. Qualcuno l’avrà già messa da parte per alla prossima, ennesima tavola rotonda sui guai della ricerca italiana.
Perchè proprio loro ci cascano?
Potrei dire, confortato da una certa esperienza, che molti ricercatori, anche bravissimi, sanno poco di politiche della ricerca e si limitano spesso a piangere per i pochi fondi che vedono arrivare. E questo è sicuramente un motivo che li spinge a condividere anche informazioni farlocche. Come tutti gli umani, anche gli scienziati cadono nella trappola tipica delle bufale: se una notizia conferma un bias o un luogo comune che abbiamo in testa, si diffonde velocemente, anche se è falsa.
Le bufale si muovono spinte dal motore dell’ideologia, e nel dibattito sui finanziamenti alla ricerca, l’ideologia e i bias vanno a manetta.
E’ forse per questo che nel mondo del debunking scientifico le bufale sui finanziamenti alla ricerca godono di una specie di immunità. Mentre c’è una comunità molto attiva nel disinnescare –giustamente-le notizie farlocche sui vaccini, gli OGM o le scie chimiche, le bufale come quella di Higuain viaggiano indisturbate senza che nessuno le contesti. Anzi spesso vengono diffuse, come in questo caso, dagli stessi scienziati.
A questo punto penserai: “Ma insomma, anche investire cento, mille Higuain in ricerca è troppo poco!”. Entrare nel merito non è lo scopo di questo post ma se volete l’ho fatto altrove nel mio blog. Diciamo che il tema dei finanziamenti è una piaga aperta del sistema di ricerca italiano, ma non l’unica e non certo la peggiore. Serve a poco infatti chiedersi quanto si spende se non ci si domanda anche come, dove e con quale strategia, e questo è un punto dolente nel dibattito.
Comunque la si veda, non si fa un favore alla scienza facendo girare sui social le figurine di Higuain corredate da numeri farlocchi.
Chi ha a cuore la ricerca dovrebbe cercare di spogliarsi dalla retorica e dal conflitto di interessi e ragionare razionalmente, da scienziato, sulla bontà dei numeri. E magari sostituire al solito piagnisteo qualche idea sulle strategie e sull’efficacia organizzativa, un fattore che oggi nell’università italiana non è da record.
PS: Applicando le metriche del calciomercato ai dati OCSE (divertitevi se volete sul file, ma non credeteci troppo) si scopre che il governo investe in ricerca nel campo della difesa poco meno di 70 milioni, questa volta, sì, meno del cartellino del fuoriclasse argentino.
Ma volete mettere un meme che dice “l’Italia spende in ricerca sugli armamenti meno del cartellini di un giocatore?”. Suona male, e magari l’autore del deme è anche giustamente, pacifista.
Università e meritocrazia: vogliamo parlarne seriamente?
Le polemiche sulla ricerca in Italia sono tutte uguali. Perchè non si riesce ad affrontare seriamente il tema della gestione della ricerca? Nell’accademia italiana esiste davvero un dibattito sulla meritocrazia?
Sono bastate poche righe scritte su Facebook da una scienziata Italiana esule in Olanda per trasformare la propaganda social del ministro Giannini in un epic fail. Roberta D’Alessandro ha ragione ed è stata efficace. Su facebook ha praticamente fatto i nomi di chi le ha rubato il posto. Ma c’è da scommettere che una volta spenti i riflettori dei media, cioè fra un paio di giorni, il discorso sulla meritocrazia nelle università italiane tornerà in ghiacciaia.
Perchè non si riesce ad affrontare seriamente il tema della gestione della ricerca, al di là della polemica estemporanea o del piagnisteo per la mancanza di fondi? I soliti sospetti, cioè i media e la politica, hanno un pò di colpa. Le responsabilità di un dibattito pubblico carente sono sempre condivise. Ma siamo sicuri che nell’accademia italiana esista davvero una riflessione sulla meritocrazia? Me ne occupo da tempo, e queste sono le mie conclusioni finora:
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Di meritocrazia (vera) l’accademia non parla quasi mai.
Gli appelli che arrivano dal mondo accademico italiano – l’ultimo gira online ed è uscito pochi giorni fa (di nuovo) su Nature – denunciano quasi sempre la scarsità dei finanziamenti pubblici e qualche volta protestanto contro l’ennesima riforma piovuta dall’alto. Difficile leggere un appello – o una proposta che non arrivi dai piani superiori dei ministeri- per liberarsi da cattedre inutili e produttive, migliorare o abolire i concorsi, legare i finanziamenti ai risultati e far posto davvero ai più meritevoli. Come se questi temi fossero secondari nel dibattito sulla ricerca (notizia: non lo sono) o rappresentassero un problema della politica e non dell’accademia.
Un’altra causa che di recente ha convinto i professori italiani a salire sulle barricate è una rivendicazione salariale. Per protesta contro il blocco degli scatti di anzianità, 300 di loro rifiutano di sottoporsi alla valutazione Anvur, che per quanto opinabile è l’unica parvenza di valutazione meritocratica della ricerca italiana. Al di là delle idee personali sull’opportunità degli scatti automatici (io li ritengo devastanti, l’antitesi della meritocrazia), siamo sicuri che nelle nostre università non ci sia qualcosa di più urgente e giusto per cui battersi?
Insomma, come in altri campi, anche nella ricerca si parla spesso di merito, ma quasi sempre come una questione NIMBY che riguarda astrattamente gli altri. Magari mi sbaglio e le nostre facoltà abbondano di professori che fra loro discutono animatamente su come far posto ai più meritevoli. Se per loro è davvero una priorità e hanno un piano in testa, sarebbe meglio che lo facessero sapere.
2. La retorica guerresca non si adatta alla ricerca (scienziati, dovreste saperlo!)
Nessuno nega che la carenza di fondi sia un problema serio. Ma chi lavora in università tende a focalizzarsi solo sul tema dei finanziamenti, mettendo in secondo piano i difetti interni al sistema e trattando con sufficienza le critiche che arrivano da fuori.
La resistenza alla critica si concretizza spesso con il ricorso continuo all’emergenza e alle teorie del complotto contro la ricerca libera. Alcuni messaggi contro i tagli finanziari alla ricerca sembrano arrivare da una zona di guerra invece che dagli augusti corridoi degli atenei: “L’università/la libertà della ricerca sono sotto attacco! Ci vogliono demolire! Difendiamo la ricerca pubblica!”
La passione è sempre un valore, anche in comunicazione. Ma prima di fomentare l’idea opinabile di un attacco alla ricerca (da parte di chi?) sarebbe più utile concentrarsi sulla minaccia interna che sicuramente pesa sull’attuale sistema, e cioè la carenza di meritocrazia e organizzazione. La retorica degli appelli insiste sull’urgenza e divide la gente in squadre – con noi o contro di noi, strutturato o precario, pubblico o privato, statalista o liberista- con l’effetto di appiattire e polarizzare il dibattito.
3. L’autoreferenzialità fa più danni di ISIS
Perdonerete l’autocitazione che segue, ma serve a capire. Un anno fa scrissi un articolo su Euroscientist partendo dall’ennesimo appello dei ricercatori contro i tagli ai finanziamenti. Il pezzo riportava voci solidali ma anche critiche verso l’accademia italiana, costantemente col cappello in mano alla ricerca di fondi ma incapace di auto-migliorarsi. Si citavano anche le statistiche sui grant ERC vinti dagli italiani all’estero, gli stessi di cui parla D’Alessandro nel suo colpisci-affonda al ministro.
Per questo articolo fui tacciato di disonestà intellettuale e scarsa professionalità e sommerso di commenti provenienti da un gruppo di accademici “militanti” che in soldoni dicevano: l’università italiana funziona benissimo. I giovani bravi scappano perchè ci sono pochi fondi: datecene di più. Chi non è d’accordo vuole distruggere la ricerca pubblica e riempire l’Italia di atenei privati. Stop. A supporto delle loro convinzioni riempirono le bacheche Facebook di dati bibliometrici sulla ottima produttività scientifica delle nostre università. Quei dati sono veri, li conosco bene e li avevo citati nel pezzo ma non bastano a fotografare un sistema di ricerca (l’articolo spiegava anche perchè).
Al di là delle opinioni personali, questo esempio è sintomatico dell’autoreferenzialità in cui si crogiola il nostro mondo accademico, o almeno la parte più visibile e vocale di esso. La tendenza è ignorare le critiche e nei casi peggiori fomentare l’idea di un complotto contro la ricerca pubblica. I concorsi pilotati? Colpa delle regole ministeriali. Il numero di brevetti inesistenti? Colpa dell’industria che non contribuisce. Le fughe all’estero? Colpa dei fondi insufficienti. Il calo degli iscritti? Colpa dei media che non spronano i ragazzi alla carriera scientifica (non ci crederete ma è quello che davvero si sente dire in molte tavole rotonde). E così via con lo scaricabarile (se volete una rassegna di tutti i guai, con relativa giustificazione cercate qui ).
4. I giornalisti non portano l’elmetto
Alla costante autoassoluzione si somma la retorica della trincea. Gli amici accademici a cui chiedo spesso un feedback sui temi della meritocrazia mi danno sempre indicazioni utili, a volte critiche, ma il tono è spesso improntato all’urgenza militante: “Hai ragione, ma ora bisogna pensare ai finanziamenti, poi al resto”. Il senso è sempre quello: “Siamo in guerra. Se scrivi queste cose danneggi la causa.”
In questa guerra immaginaria, il mondo universitario si aspetta appoggio incondizionato dai giornalisti scientifici, specialmente quando si tratta di far girare appelli e comunicati stampa, ma ignora o taccia di qualunquismo quelli che vanno a sbriciare sotto al tavolo e danneggiano la causa. Magari perchè non si adeguano al piagnisteo, o magari perchè ritengono e scrivono che una scoperta presentata come sensazionale non è poi la fine del mondo.
E’ un rapporto con la stampa malsano e poco rispettoso dei ruoli: un giornalista, per quanto appassionato di scienza, non è un megafono degli scienziati. Il tema -che è internazionale ma in Italia assume contorni militanti- emerge spesso nelle discussioni fra giornalisti scientifici, e ogni tanto ne parla anche in questo gruppo Facebook. Non è ironico che bravi ricercatori, gente che si nutre della complessità del mondo e della forza dirompente del pensiero critico, si mettano l’elmetto e chiedano agli altri di fare altrettanto?
5. Ascoltare le critiche, e magari cercarle, è utile (scienziati: anche questo dovreste saperlo!)
Sia chiara una cosa: non sono un maverick rancoroso contro l’establishment accademico italiano. Al contrario, di quel mondo ho fatto parte con passione finché ho deciso di cambiare strada. Con le università ci lavoro e collaboro (pazienza se quello che scrivo farà arrivare qualche incarico in meno). Ho avuto e ho tuttora il privilegio di frequentare ricercatori di valore assoluto che lavorano, scoprono, pubblicano e si guadagnano la pagnotta in Italia, e meriterebbero di più. Insomma, se dovessi basarmi solo sulle tantissime persone fantastiche che conosco, sarei il fan più sfegatato dell’università italiana e dei suoi abitanti. Ma chiunque abbia frequentato il sistema universitario ne conosce anche i lati perversi e appiccicosi, e non si possono ignorare le moli di informazioni e dati oggettivi che tracciano un quadro inquietante del sistema ricerca.
E’ l’amore per la scienza a farmi dire che la ricerca pubblica vera si difende meglio con una critica documentata, anche feroce, che con cento militanti pronti a morire per la causa. Si difende anche ridicolizzando l’ipocrisia di chi con una mano chiede più fondi e con l’altra si chiude gli occhi di fronte alla palese mancanza di meritocrazia nei propri corridoi.
Si può tutelare la ricerca come bene collettivo e proprio per questo confutare l’idea para-sindacale e devastante che i posti fissi a vita, le infornate, la stabilizzazione e gli stessi concorsi siano la strada giusta e risolutiva da percorrere (vogliamo davvero assumere precari e creare altri posti a vita che intaseranno il sistema per decenni?). Vorrei poter gioire all’idea che le facoltà improduttive chiudano per mancanza di fondi senza per questo venire etichettato come membro di un complotto finalizzato a distruggere l’università pubblica.
6. Non c’è bisogno di distruggere l’università pubblica: si sta divorando da sola.
Il vero nemico della ricerca, se c’è, si annida nelle facoltà e si chiama: concorsi pilotati. Si chiama: corruzione. Si chiama: posto fisso a vita. Si chiama: autoreferenzialità. Si chiama: finanziamenti a pioggia (quando c’erano). Si chiama: rettori e decisori pericolosamente vicini alla politica. Si chiama con i tanti nomi che gli amici universitari conoscono meglio di me.
Chi lavora nell’università farebbe bene a togliersi l’elmetto, prendere la scopa e se ce n’è bisogno fare pulizia nei propri atenei. Non si può sempre dare la colpa agli altri.
I ministri, i politici, vanno e vengono. Roberta D’Alessandro e la sua stoccata su Facebook fra tre giorni saranno dimenticati. Solo dal mondo accademico – non da riforme piovute dai ministeri- potrà arrivare un vero cambiamento, se davvero qualcuno lo vuole.
Dammi il tuo DNA e ti dirò chi sei
Per chi è interessato al tema che vado raccontando un pò ovunque ecco un bel video del seminario Science & the City 2 con Paolo Gasparini e il sottoscritto condotti da Fabio Pagan. Si parla di genomica di consumo, 23andMe, Snoop Dogg, Angelina Jolie e molto altro.
Il format di Science & the City è uno dei miei preferiti perchè prevede talk di 10 minuti cronometrati e lascia quindi larghissimo spazio alla discusssione.
Date un’occhiata anche ai video delle altre serate, sono tutte davvero interessanti e ben fatte. Ringrazio il pubblico di Trieste, l‘ICGEB, Mauro Giacca e tutti gli organizzatori. #genetica #dna