1,7 Million
Quando chiesero a Marina Abramovich cosa è l’ “arte” lei rispose che se un’opera o una performance le fai nel posto giusto, la chiamano arte, altrimenti no. (non è una citazione verbatim ma il concetto è quello).
Parafrasando potremmo dire che nel mondo culturale italiano la definizione di “giornalismo” o “informazione” dipende molto da dove la fai. Se ad esempio una cosa la fai in TV o in certe testate si chiama “giornalismo”, “informazione” o “cultura”, anche se la fai male e ti vedono quattro gatti. Se invece la fai su Youtube sei uno “youtuber”, (sottinteso in certi ambienti: l’equivalente culturale di un buffone, o di un intrattenitore). Anche se la fai bene, anche se trasmetti messaggi molto più efficaci e ti vedono in tanti.
La classifica di “serietà” percepita nel mondo dell’informazione italiano, diciamo così piuttosto autoreferenziale, potremmo riassumerla nel modo seguente:
-Se sei un giornalista e vai in TV, sei arrivato.
-Se sei un giornalista e stai su Twitter, sei un giornalista.
-Se sei un giornalista e stai su Facebook, cazzeggi con le foto dei viaggi o ti fai promozione con i boomers.
-Se sei un giornalista e stai su Youtube, sei uno youtuber.
(Se sei un giornalista e stai su Instagram, sei semplicemente a caccia di f.ga.)
Ora a me questo schema crea diversi problemi. Prendiamo ad esempio Youtube. Un mio video sui vaccini è il terzo contenuto italiano più visto sul tema con 1,7 milioni di visualizzazioni (poco dopo quelli di Cartoni Morti e escludendo un paio di inutili video di battibecco acchiappaclick presi dai talk show ).
Non sono qui a fare l’apologia delle views: chi segue i miei corsi di comunicazione sa quanto consideri poco rilevanti queste metriche da sole.
Il punto è che molti miei video Youtube, dati Nielsen alla mano, hanno in media una audience più alta della maggior parte dei programmi TV di daytime e anche di certi programmi serali. I miei video durano peraltro durano 15-20 minuti e oltre, contro i 30 secondi medi di approfondimento offerto dalla TV generalista. Sulla rispettiva qualità dei contenuti non dovrei essere io a giudicare, e non lo farò, ma sui numeri questa è la realtà, e vale a maggior ragione per i canali social di colleghi che sono anche più seguiti di me.
Eppure Youtube, nella mente di molti, resta un medium da sfigati, di quelli “che in TV non ci vanno e quindi si arrangiano in casa”.
Niente aurea di expertise perché te la suoni e canti da solo, in casa tua, con le magliette sceme.
Non vale solo per Youtube. Quando per mesi, durante la pandemia, ho scritto su Facebook critiche documentate riguardo al CTS, sono rimaste dov’erano: nel mondo social, seppure lette e apprezzate da migliaia di lettori e scopiazzate (maluccio) da qualche giornalista che le aveva lette. Dopo che ho pubblicato sostanzialmente gli stessi contenuti su Nature Italy i dubbi sono entrati nel dibattito pubblico e hanno avuto un discreto impatto, e io stesso sono stato chiamato a parlarne nei media “mainstream”.
D’accordo, Nature è una rivista seria, quello che ho scritto è stato soggetto ad una verifica editoriale, ed è logico che si goda di un autorevolezza di riflesso data da una testata prestigiosa. Ma questo giustifica tutta questa differenza nella percezione? E quante testate italiane effettuano lo stesso controllo editoriale ai contenuti? (spoiler: nessuna)
Vi faccio un altro esempio: i libri. Mi è capitato di parlare di DNA in un libro che mi ha dato molte soddisfazioni e poi di declinare lo stesso contenuto in alcuni video divulgativi su Youtube. Nell’asfittico mondo culturale italiano, il libro è stata la vera “patente” per entrare nel dibattito, con il corollario di inviti ai festival e agli eventi (quelli pagati, s’intende, per quelli gratis va sempre bene tutto). Non mi lamento, si intende. Però i video ( stesso tema, stesso autore: io) hanno raggiunto un pubblico quasi cento volte maggiore.
Avere pubblicato un libro è oggettivamente una garanzia di maggiore qualità dei miei contenuti? No, e lo dico da autore di libri. Quello che scrivi è quello che esce, fatto salvo l’utilissimo intervento di redattori e correttori di bozze sui testi. La qualità dipende dal contenuto, non dal mezzo. Ma mettere “autore del libro tal di tale” nel sottopancia è un’altra cosa.
L’impressione è che l’attaccamento al supporto, al medium, invece che al contenuto raggiunga livelli quasi feticistici in certi ambienti culturali. E’ un loop autoreferenziale che alla fine fa sì che certi canali e testate e chi li frequenta abitalmente siano sovrastimati e a volte sovrafinanziati. Il fattore economico è evidentemente fondamentale, così come quello della cost-effectiveness di certi media, ma ci tornerò in altre occasioni.
Per ora mi fermo qui, sottolineando che resto un giornalista scientifico in tutti i canali, anche in quelli dove il giornalismo secondo alcuni non esiste. Almeno finché ne avrò voglia e tempo.
Russia: Come Funzionano le Fabbriche di Fake News
“I troll non sono sfaccendati: è il loro lavoro”. Il mio ultimo video targato Rockscience è un’intervista a Marta Ottaviani, autrice di “Brigate Russe: La guerra occulta del Cremlino tra troll e hacker“. Un viaggio nelle fabbriche di disinformazione e sulla “guerra non lineare” di Putin che ha impattato fortemente anche sulla comunicazione di Covid e vaccini.
Non perdetevelo. Grazie ancora a tutti i sostenitori che hanno reso possibile il video.
IL CENTENARIO CHE QUASI SFIDO’ LA BIOLOGIA
In paese dove la filantropia ancora si chiama “beneficenza”, Marino Golinelli è stato un raro esempio di mecenatismo moderno
Ho avuto la fortuna di incontrare Marino Golinelli in due occasioni legate a momenti importanti della mia carriera e che ricordo con emozione. La prima volta fu a Milano nel 2000 per la consegna di un prestigioso premio giornalistico per la divulgazione della genetica, di cui la sua Fondazione era sponsor.
Ero all’inizio della mia carriera, arrivai terzo ma ero contento come se avessi vinto. In fondo era il primo riconoscimento che avessi mai avuto per il mio nuovo lavoro.
Quel giorno alla cerimonia intervennero quisquilie come Craig Venter – ancora non famosissimo da noi ma che l’anno successivo avrebbe condiviso i riflettori alla Casa Bianca per l’annuncio della mappa del genoma umano- e Victor McKusick -un pezzo di storia della Genetica, il mitico creatore del database OMIM, una “bibbia” per chiunque abbia a che fare con la genetica. McKusick era già piuttosto anziano e molto schivo e quasi si commosse quando lo presi in disparte e lo ringraziai per la sua opera lontana dai riflettori ma così utile per tantissimi biologi, medici e pazienti.
Insomma era come essere nella versione nerd della serata degli Oscar, e avevo preso pure una statuetta.
Quella volta feci la mia prima conoscenza con Marino Golinelli, con cui era impossibile non finire a parlare del futuro. Lo so, è quello che dicono tutti ma è vero. Mi resi conto quasi subito di parlare con qualcuno per cui il futuro, e di conseguenza lo sviluppo tecnologico, erano quasi una fissazione, un fil rouge che legava conversazioni e pensieri. Si parlò di cosa sarebbe cambiato con la mappatura del genoma, di quanto avrebbe modificato anche le nostre vite quotidiane.
L’altra caratteristica stupefacente di Golinelli, che tutti notavano, era un’età apparente che sembrava sfidare le leggi della biologia. Il Golinelli teoricamente anziano che vidi quel giorno e quello ultranovanenne che incontrai anni dopo conservavano entrambi la lucidità e l’entusiamo del ventenne. Ma anche nel fisico e nel portamento l’uomo che conobbi io dimostrava almeno 20-25 anni in meno rispetto all’anagrafe.
Lo rincontrai anni dopo, quando fui chiamato a parlare ad un evento divulgativo dalla sua Fondazione, a Bologna. Volle invitare tutti a casa sua, un bel palazzo dietro Piazza Maggiore, per un piccolo ricevimento. Mi ritrovai in un ambiente informale ed eccentrico. La casa era, e credo sia tuttora, una specie di galleria vivente di opere che Marino Golinelli e la moglie Paola acquistavano per sostenere giovani e sconosciuti artisti.
Invece di ostentare quadri milionari comprati all’asta- che pure si potevano permettere e magari avevano anche da qualche parte- i Golinelli preferivano mostrare agli ospiti le opere di giovani emergenti che un preparato cicerone (credo fosse il suo curatore di fiducia) ci raccontava girando per le stanze e cercando di farci entrare nella mente dell’artista.
Perfino in bagno mi trovai inquadrato da una telecamera a circuito chiuso che proiettava la mia immagine in falsi colori su uno schermo cyberpunk fissato davanti al water. Era una delle tante opere contemporanee che ornavano la casa, e che naturalmente fu oggetto di divertenti discussioni.
In quell’occasione ricordai a Golinelli il nostro primo incontro. Fu contento di avermi portato fortuna e si parlò, ovviamente, del futuro. In un paese che guarda sempre indietro, con gente di ogni età fissa sullo specchietto retrovisore del passato, mi colpì e commosse ascoltare quell’uomo già oltre i novanta (anche se ne dimostrava molti meno), discutere con passione di sviluppi e realtà a venire che sicuramente non avrebbe visto con i suoi occhi, ma che quasi riusciva a toccare con mano.
Ho ripensato molte volte a quella conversazione e ne ho parlato negli anni a tutti quelli che mi capitavano a tiro. Al momento di partire lo salutai chiedendogli per scherzo, ma neanche tanto, se avesse donato il suo DNA per gli studi sulla longevità, cosa che, ovviamente, era dispostissimo a fare.
Marino Golinelli, imprenditore e mecenate, ci ha lasciati sabato scorso a 101 anni. La biologia- di cui il suo aspetto e spirito sembravano quasi farsi beffe- alla fine ha prevalso, e forse lui sarebbe il primo a restare affascinato da questa cosa.
Spero tanto che i suoi ultimi anni siano stati come quelli in cui l’ho visto io.
In un paese dove la filantropia ancora si chiama pelosamente “beneficenza”, dove tanti paperoni si fanno belli con quattro soldi, poco sforzo e nessuna visione, Golinelli è stato un esempio di mecenatismo moderno e ha lasciato un’impronta e un’eredità tangibili nella società e in quelli che l’hanno conosciuto.
Un abbraccio alla famiglia e agli amici della Fondazione Golinelli.
Photo credit: Fondazione Golinelli
Come smettere di litigare con i Palloni Gonfiati Pandemici
Il ghosting è il sistema più efficace per disinnescare gli esperti da talk show. Il decalogo.
Continuo ad assistere alquanto sconsolato alle piazzate social che vedono da una parte valenti ricercatori e/o bravi giornalisti scientifici, gente che si spende per informare con competenza ed efficacia, e dall’altra un noto manipolo di Virologi da talk show, che per brevità chiameremo Palloni Gonfiati Pandemici, medici ed accademici che imperversano su tutti i canali con sparate sempre più spettacolari, venerati con fanatismo sui social e considerati perfino come fonti affidabili da una parte consistente della stampa generalista.
Se mi seguite, i primi già li conoscete, così come dovreste avere imparato a riconoscere i Palloni Gonfiati. Dato però che queste litigate – che vi risparmio nei dettagli- sono ormai un genere letterario a sé, mi sono permesso di raggruppare in questa mini-guida qualche appunto sparso di strategia comunicativa (cosa che faccio per lavoro da 23 anni) a beneficio dei primi.
1) I Palloni Gonfiati Pandemici prosperano nella polemica social e mediatica. La loro strategia di comunicazione, mutuata dai politici demagoghi e ciarlatani (gli stessi che si vantano di contrastare), si basa sul conflitto, l’assertività, l’escalation polemica e l’atmosfera circense da talk show. Ogni volta che rispondete ad un loro tweet, ogni volta che li ricondividete o mettete un loro screenshot anche solo per sputtanarli, in realtà li fate vivere e propagate i loro memi tossici anche a chi non li segue e non li vedrebbe mai.
2) Un aspetto fondamentale in comunicazione pubblica è l’agenda-setting, e cioè chi decide l’argomento della conversazione. Non fosse altro perché il tempo e lo spazio per le conversazioni sono limitati. Quando rispondete alle sparate continue di certi fenomeni sono loro a dettare l’agenda. Il vostro tempo, i vostri sforzi e l’attenzione di chi vi segue sono dirottati verso i temi e i tagli comunicativi e nei modi, tempi e toni che convengono a loro. Non state facendo la vostra comunicazione, ma partecipando a quella di altri. I post divisivi e le asserzioni assurde non sono un tic di certi politici – e probabilmente neanche di certi scienziati da social- ma una forma efficace di agenda setting. Andando dietro, fate il loro gioco.
3) Se pensate che queste considerazioni siano teoriche o troppo raffinate per le vostre “controparti”, o che voi prevarrete grazie ad una statura intellettuale o morale superiore, significa che loro sono più furbi di voi e che non avete l’esperienza minima di comunicazione per entrare nell’agone pubblico. Neanche da spettatori. Rivalutate.
4) Il modo più efficace e sperimentato per togliere ossigeno a quei personaggi è il ghosting. Ignorarli. Silenziarli nei vostri feed social, silenziare quelli che li condividono. Non guardare le trasmissioni dove sono ospiti. Se per caso siete invitati a programmi o eventi, chiedere la lista degli altri ospiti e non condividere il palco con loro (il consiglio generale è comunque quello di non andare MAI nei talk show a prescindere). Evitare assolutamente di rispondere loro direttamente o intervenire nei loro canali (anche perché non li dovete seguire). In questo modo si abbassa l’Rt dei memi tossici e ci si concentra sulla propria agenda. Nei miei feed certi personaggi non compaiono mai, se non perché ricondivisi da altri, che in genere silenzio a loro volta per abbassare il rumore di fondo.
5) Forse penserete che questo sia sbagliato perché è un vostro dovere civico evitare che girino le informazioni errate e potenzialmente pericolose. La realtà è che non potete impedire che i memi di altri si diffondano tra quelli che li seguono. Una certa quota di pubblico (anche consistente) è semplicemente refrattario al ragionamento logico e va dietro alla prima persona assertiva che gli dice quello che vorrebbe sentire (v. “target” più avanti). Non potete farci niente. Meglio concentrarsi sulla propria agenda comunicativa, e diffondere messaggi corretti al proprio pubblico, cercando magari di fare crescere la propria piattaforma comunicativa. Se una fonte è smaccatamente inaffidabile si ignora, non si controbatte sistematicamente.
6) La comunicazione funziona per target. I vostri colleghi Palloni Gonfiati Pandemici hanno un target generalista, puntano alla massa. La loro comunicazione non è rivolta ad un target interessato alla scienza o alla complessità. Hanno agende di interesse personale, economico e talora politico – su cui magari torneremo ad approfondire. Praticano sovente il bullismo. Battono su un pubblico che probabilmente non è il vostro e su cui difficilmente avrete presa con i vostri (corretti) ragionamenti. I loro argomenti, lo vediamo sono spesso slogan senza alcuna coerenza nel tempo: proprio come il modo di pensare del loro target, la cui memoria storica è di poche ore, e la cui soglia di attenzione non supera qualche secondo. Le loro asserzioni sono spesso demagogiche e puntano a dire esattamente quello che il loro pubblico vorrebbe sentirsi dire in quel momento. A meno di diventare come loro, non avrete mai presa efficace su quel pubblico. Il vostro target, probabilmente è diverso e non avete bisogno di polemizzare con altri per intrattenerlo.
7) La polemica social, specialmente su Twitter, ricalca le dinamiche perverse dei talk show, che sono un genere di intrattenimento e non di informazione. Il pubblico che segue questi scambi anche tra scienziati, è lì per vedere il sangue. Se il vostro obiettivo è stare in un ring con il pubblico che sbava, allora siete apposto. L’importante è capire che in questo modo fate intrattenimento, non informazione. Ogni tanto l’ho fatto anch’io il polemico: basta essere consapevoli di quello che si ottiene. Quando litigate con questi Palloni Gonfiati dove volete arrivare?
8 ) La cosa più utile è continuare a fare pubblicamente è quello che già molti di voi fanno benissimo: condividere analisi e informazioni accurate con chi vi segue, stabilendo voi la scansione di temi e tagli senza rincorrere le agende altrui. In pratica: parlare di quello che conoscete bene, trasmettere la vostra passione nei tempi e modi che vi risultano più congeniali, chiarendo le idee a molti, coinvolgendo un target ricettivo e fornendo strumenti utili anche a chi per lavoro racconta questi argomenti ad altri. Il vostro impatto sarà probabilmente superiore a quello che immaginate, anche in termini numerici.
9) Tutto questo non significa ovviamente rinunciare alla dialettica o polemica scientifica, che sono fondamentali e possono essere anche virulente, come insegna la storia della scienza. Bisogna però farlo nelle sedi opportune. Se tizio o caia insegnano all’università e sparano continuamente evidenti baggianate fatevi piuttosto un dossier da sventolare loro in faccia al primo meeting scientifico, oppure da appendere alla bacheca della facoltà o fare girare nelle sedi professionali opportune. La caratura scientifica internazionale di questi personaggi è in genere bassa, anche se pubblicamente appiano larger than life. Se poi ritenete che persone che praticano il bullismo (a volte non solo nei social), magari dotate di dubbie competenze scientifiche non dovrebbero avere un posto accademico beh, siamo tutti d’accordo ma il problema è da risolversi nell’accademia, non sui social.
10) Può capitare nonostante tutto di essere citati, sbeffeggiati o coinvolti direttamente da qualche Pallone Gonfiato Pandemico senza averli provocati. Fa parte della strategia. Il Pallone Gonfiato Pandemico ha bisogno continuamente di avversari per intrattenere il suo pubblico. Non cascateci a pera, con il rischio di fare il loro gioco ed entrare nel ring. Se ci sono gli estremi di diffamazione, attivate direttamente le vie legali senza pubblicizzarlo: vi stupireste a sentire quanti di questi fenomeni, anche di quelli con cui litigate attualmente, sono diventati agnellini dopo una richiesta di risarcimento. Se dovete proprio controbattere, fatelo con stile, a mente fredda, mostrando superiorità, senza rispondere direttamente. Per quanto riguarda infine l’opinione dei colleghi che leggono i social, considerata la reputazione lillipuziana di cui molti Palloni Gonfiati godono nella comunità scientifica, i loro attacchi non dovrebbero essere un grave danno di immagine, anzi.
PS: A scanso di equivoci, quello che segue non è una critica verso la succitata categoria di volenterosi ricercatori che si sono adoperati per informare davvero e in modo efficace, e a cui va il mio ringraziamento. Al contrario, serva ai volenterosi per evitare di infognarsi, anche in buona fede, in tunnel comunicativi di cui sono i primi a dolersi.
I blob esistono!
Avete mai allevato amebe? Io sì.
Un video alla scoperta scientifica di questi mostriciattoli sorprendenti e a modo loro simpatici.
Un must per halloween e un utile video per la didattica.
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A presto!
Sergio
Polvere alla polvere
Reality check: le news servono a informare. Non a intrattenere o a mostrare quanto sei bravo a scrivere.
Se c’è una cosa che mi ha sempre esilarato della stampa italiana è l’ambizione narrativa improvvida di tanti giornalisti di cronaca. Questa tendenza un po’ provinciale è particolarmente fervida nelle testate locali, cosa che me le rende amatissime.
Al Bar Trombetta, ad esempio, sfoglio avidamente le testate locali appoggiate sul bancone frigo dei gelati Stocchi cercando quei cronisti che per raccontare l’incidente tra motorino e bici all’angolo tra il negozio NonsoloSchiacciate e la vetrina di AltamodaGiusy si reincarnano in Hemingway e sparano tre cartelle descrivendo l’orrore dei pezzi di plastica rossi del fanale sparsi sul marciapede dove poco prima giocavano ignari e innocenti bambini. Senza magari dare le informazioni essenziali: chi, dove, quando.
Qualche volta, di nascosto, quei pezzi li ritaglio e me li metto in tasca per rigustarmeli con calma.
Con il rapido deterioramento dei media, che pare ormai paghino i collaboratori in sacchetti di lupini, i pezzi di cronaca che sembrano scritti da Truman Capote, ma nella versione da morto e sotto acido, si moltiplicano anche nelle testate nazionali.
Cercando ad esempio informazioni su una tragedia aerea in una testata nazionale, mi è toccato oggi leggere il classico pezzo di “colore” che si apre ad effetto con “cani al guinzaglio che sono nervosi, e i padroni che li portano a pascolare sull’erba li strattonano via…”, e continua con ripetuti richiami alla polvere, quella dei palazzi distrutti, dei corpi polverizzati (ma si può…) tutto per chiudere con l’immagine delle ricche vittime e dei loro soldi ormai ridotti in polvere. Sic transit gloria mundi. In questo favoloso arco narrativo, anche ammesso che ti piaccia, le informazioni fattuali che servono a capirci qualcosa le devi cercare altrove. Magari in un’altra testata.
In questi pezzi recepisco soprattutto la frustrazione di gente che magari è uscita da lettere moderne o comunicazione con il 110 e lode, ha nel cassetto dieci potenziali bestseller e per campare o fare pratica si ritrova a raccontare della sagra della Nana Arrosto, si sente sminuita e cerca di sfogare il proprio talento creativo. E la cialtroneria dei caporedattori che ti chiamano e ti dicono di andare lì a fare il pezzo “di colore”, che tanto a mandarti lì gli costa quanto un caffè al Ginseng.
Ma vorrei sottolineare invece che la cronaca è un ambito nobilissimo che merita di essere trattato come merita.
Ad esempio ho imparato sul campo che la regola delle news è sempre quella, saggissima, di attenersi alle famose “W” della scuola anglosassone. A meno forse di non essere un talento unico, ma ne nascono davvero pochi.
Io che pure non ho mai avuto mai molta tendenza a colorare, e scrivo di scienza e non cronaca, quando cominciai a lavorare con le testate anglosassoni mi vidi tornare più volte i miei pezzi corretti, con interi paragrafi cancellati perché facevano soltanto colore e non portavano alcuna informazione utile a capire la notizia o il contesto. Insomma, batti batti alla fine ho capito che nelle news l’arco narrativo- che invece è fondamentale ad esempio nel longform- conta quanto un due di picche.
E’ vero, le news così vengono tutte uguali, ma è proprio lì il punto: la news serve a informare, non ad affascinare o intrattenere, e lo deve fare nel minore numero possibile di parole. Se poi hai un’apertura interessante meglio, ma non è fondamentale.
Un concetto radicalmente opposto a quello che si inculca in Italia, dove dalle elementari all’Università, dai corsi di scrittura creativa a (perfino) alcuni master di giornalismo, si spinge in modo ossessivo sullo stile e l’abbellimento, sull'”intortamento” e sul “colore” tralasciando la parte essenziale.
Ho fatto parte di legioni di would-be giornalisti abbeveratisi ai concetti italianissimi di “rimpolpamento” “apertura ad effetto” “chiosa” che purtroppo non servono a confezionare news – o perlomeno vanno usati con estrema parsimonia. Ne sono uscito migliore. Fallo anche tu.
Tutto sulle varianti
Da dove arrivano le #varianti COVID-19, cosa sono, perché ci preoccupano? I vaccini sono efficaci contro le varianti? lo spiego in modo semplice nel mio ultimo video, in collaborazione con DIPLE, il microscopio portatile per smartphone!
Ho usato il metodo scientifico. E mi sono abbronzato.
Prima di partire per la mia giornata al mare (2h andata e 2h al ritorno) come sempre ho guardato le previsioni. Pessime per la Toscana. Allarme giallo e temporali nelle zone interne, fino a pochi km dalla costa. Ma sul litorale di Baratti la previsione era sole pieno (lo vedete quello spazio bianco davanti all’Elba?).
E allora sono partito, fidandomi delle previsioni. Ho passato una giornata senza una nuvola, mentre pochi chilometri all’interno pioveva a scatafascio.
Culo? No. Scienza e tecnologia applicate bene.
Una semplice previsione meteo oggi è frutto di migliaia, forse milioni di datapoint di boe, anemometri, stazioni meteo sul territorio, satelliti che confluiscono in un modello matematico, insieme alle serie storiche e a chissà quanto altro. Una previsione che magari, dopo, verrà confrontata con il meteo reale per istruire e migliorare il modello. Il tutto supportato dalla conoscenza e dalla ricerca nel campo dei fenomeni meterologici, che a sua volta mette insieme fisica, scienze della terra, oceanografia e molte altre discipline.
OK, lo ammetto, c’era anche un po’ di culo. Perché i modelli sono probabilistici e non ci azzeccano sempre. Come tutte le attività scientifiche, e come tutte le attività umane. Altre volte mi sono ritrovato sotto la pioggia, alla faccia dei modelli.
Ma questi sistemi, se usati bene, sono la cosa che funziona meglio. Quella che a scommetterci i soldi ti darebbero la maggiore probabilità di vincere.
Meglio che ascoltare i reumatismi, meglio che telefonare al chiosco sulla spiaggia e chiedere al vecchio lupo di mare (i veri lupi di mare oggi guardano il meteo, e anche con attenzione, gli altri sparano a caso). Meglio insomma di tante altre cose.
Non esiste la perfezione, esistono gradi più o meno buoni di approssimazione.
Vi dico tutto questo perché a fine giornata mi sono fermato un attimo e ho pensato a quello che facevano i nostri nonni, o anche solo a quello che facevamo qualche lustro fa, con metodi e tecnologie meno evolute di oggi.
Ho pensato a quanto sia fico avere un metodo che ti permette di prevedere con buona approssimazione che non pioverà il giorno dopo, in un posto dove ancora non sei neanche arrivato e che neanche vedi con il binocolo, mentre a pochi chilometri viene giù il finimondo.
Lo diamo per scontato, ma non lo è.