Cos’è un tumore?
Com’è fatto un tumore?
Nel mio ultimo video YouTube osserviamo veri tumori al microscopio imparando molte cose interessanti su come funzionano.
Come si sviluppa un tumore, come si riconoscono le cellule tumorali al microscopio, cosa sono le metastasi e come funzionano alcune terapie antitumorali innovative.
Questo video è in collaborazione con DIPLE, il microscopio portatile e accessibile per smartphone e tablet.
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Pensavo fosse Amore invece è solo un claim
La pace come pacchetto di comunicazione
Con l’invasione dell’Ucraina si è chiusa – almeno provvisoriamente- la fase in cui leader politici, giornalisti, opinionisti e agitatori del popolo potevano apertamente sostenere putin e la sua politica fino al punto di indossare- letteralmente- la sua maglietta.
Per i Telecomandati europei di putin il cheerleading alla luce del sole non sarebbe più socialmente e politicamente accettabile e risulterebbe controproducente, isolando chi lo pratica dai dibattiti che contano. Questo lo capiscono anche gli strateghi del cremlino con la testa quadrata, il polonio nella caffettiera e la manona insanguinata di putin poggiata sulla spalla.
E così vediamo da tempo i Telecomandati di tutta Europa adottare in blocco la nuova strategia: quella di aderire nominalmente al blocco anti-putin, così da non perdere trazione mediatica, lavorando allo stesso tempo di interdizione, erosione, sabotaggio per indebolire l’azione occidentale.
Confondere, dividere e indebolire: i soliti vecchi cardini su cui poggia la strategia di comunicazione del cremlino verso l’Occidente.
Alcune parole-chiave irradiate dagli spin doctors russi sono strumentali alla strategia degli ultimi mesi e popolano i discorsi dei Telecomandati. Una di esse è:”Pace”
Salvini, Conte, il neo-presidente della camera, i finti esperti dei talk show, Le Pen e i tanti, troppi megafoni di putin in occidente parlano tutti di “pace”. Lo fanno con formule adattate alle diverse realtà culturali geografiche, ma con messaggi sostanzialmente analoghi e prefabbricati.
Nell’accezione di costoro, “pace” non è intesa come logico e auspicabile obbiettivo di equilibrio e stabilità, di giustizia tra aggredito e aggressore e di difesa, bensì come forma di bieca arrendevolezza di fronte all’aggressore. Come miraggio astratto che livella e mette tutti sullo stesso piano. E’ la pace (con la minuscola) del bidello che ferma la rissa (“basta! Fate la pace!”) solo quando vede che il bullo della scuola le sta prendendo, inaspettatamente, dalla sua vittima.
Per un regime come quello russo, che ha iniziato una guerra ingiustificata, che saccheggia, uccide e deporta civili inermi, sembra controintuitivo e cinico spingere il concept di “Pace”. Ma ha un senso sul piano comunicativo.
Parlare genericamente di “pace” infatti vuol dire tutto e niente, e ha una connotazione emotiva che sposta l’asse dalla discussione razionale a quella di pancia, cosa che aiuta moltissimo l’obiettivo della propaganda russa che-ricordiamolo- non è convincere ma confondere.
Mi occupo per lavoro di comunicazione ed ecco come ragionerei se fossi uno spin-doctor russo con la testa quadrata e la caffettiera al polonio:
– Fare appello al valore della “Pace” significa automaticamente mettersi in una posizione di superiorità morale. Chi non vorrebbe la Pace? Poco importa che non si spieghi come: anche solo citare la pace aiuta a sostenere posizioni e a mettere gli altri in apparente svantaggio morale trasformandoli automaticamente in guerrafondai.
– Fare appello alla “pace” è un modo sottile per rilanciare e amplificare impunemente le minacce nucleari del cremlino e la prospettiva (improbabile) di una terza guerra mondiale. “Avrà anche torto ma facciamo la pace prima che quel pazzo ci distrugga tutti!” Questo è un altro pezzo della strategia di comunicazione di putin atta a impaurire, indebolire, e sfiancare l’opinione pubblica europea.
– Il tema della “pace” è perfetto per giustificare il vero “call to action” che viene richiesto ai Telecomandati: usare tutta la leva possibile per sabotare, indebolire e rallentare le misure occidentali, in primis l’invio di armi e aiuti militari all’Ucraina e le sanzioni alla russia. Le magliette indossate dai più famosi Telecomandati, ancora prima della guerra, parlavano non a caso di sanzioni: quello che più fa male a putin e che lo mette – oggi lo vediamo sempre più- in difficoltà enorme.
– A chi è talmente spaventato, vigliacco o menefreghista da dire: “lasciamo che l’Ucraina si arrangi!” l’ appello alla “pace” fornisce un’utile giustificazione morale. Non lo si fa per cattiveria o vigliaccheria, ma per la “pace” che -sottinteso- “è meglio anche per loro”! Poco importa se in questa “pace” la vittima verrebbe massacrata e l’Occidente perderebbe sul piano economico e geopolitico.
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Poco importa che quella dei Telecomandati sia una pace con la Z stampata sopra e creata a tavolino come parte di un pacchetto di comunicazione. Una specie di supercazzola con l’arcobaleno fatta per confondere. Una pace che dovrebbe placare la furia di un aggressore il quale ha lo scopo dichiarato di annientare l’aggredito e chiunque lo aiuti.
Alla luce degli sviluppi militari, poi, qualunque ipotesi di pace che non preveda il ritiro incondizionato della russia dai territori invasi sarebbe un successo per gli spin doctor russi con la testa quadrata. La russia ha infatti iniziato una guerra e la sta perdendo clamorosamente sul campo.
La formazione di un blocco occidentale relativamente compatto non era forse del tutto prevista all’inizio dagli strateghi russi, che non perdono occasione di dichiararsi delusi dalla mancanza di fedeltà da parte di paesi “amici” come l’italia dove hanno investito così tanto. In queste dichiarazioni si legge peraltro un classico messaggio mafioso rivolto ai Telecomandati: ricordate che abbiamo in mano le carte, chi sgarra lo sputtaniamo pubblicamente.
La strategia comunicativa del cremlino è elementare, brutale e senza fantasia, come molte cose che arrivano da quella dittatura. Ma funziona e soprattutto sembra ancora avere una certa capacità di adattamento, seppure grossolana.
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Figli di Piero
Ho lasciato passare qualche giorno per offrire un ricordo di Piero Angela più “tecnico” e possibilmente alla larga dall’agiografia che abbonda e che lui stesso, credo, avrebbe trovato eccessiva. La mia generazione (e, scopro, anche quella successiva) è cresciuta con le trasmissioni di Angela.
Chi fa il mio mestiere gli deve sicuramente tantissimo- non fosse altro che in termini di ispirazione. Siamo in qualche modo tutti figli o nipoti di Piero e il suo stile ha fortemente influenzato la divulgazione scientifica italiana.Più che celebrare la sua figura mi interessa tuttavia notare come l’approccio di Angela, e il suo stile, siano cambiati nel corso della sua lunga carriera di pari passo con l’evoluzione del panorama televisivo.
Poco si è detto ad esempio della spinta rivoluzionaria e innovativa che Angela aveva impresso con le sue prime trasmissioni, piene di novità stilistiche, tecniche e narrative.
Riguardando i programmi di Angela degli anni ’70 e fino ai primi anni ’80 non si sente odore di archivio ma si respira ancora oggi la freschezza che manca a gran parte della TV odierna. Il suo racconto in quegli anni era focalizzato sull’attualità e sulle frontiere più avanzate (magari meno consolidate) dei vari settori della ricerca e della tecnologia. Quello che gli anglosassoni chiamano il “cutting edge”.
L’approccio televisivo, poi, era innovativo e sperimentale, pensiamo ad esempio alla serie del viaggio nel corpo umano, con effetti speciali che oggi ci fanno ridere ma allora erano nuovissimi. Con lui che fisicamente entrava nella storia-altra cosa che da noi, all’epoca, non si era vista così spesso. Oppure la sua storica serie di indagine sulla parapsicologia, costruita sui canoni del giornalismo di inchiesta.
Il Piero Angela dei primi tempi è quello che più mi ha ispirato ed entusiasmato fin da ragazzino. Non per nostalgia ma perché in quegli anni la narrazione di Angela è stata decisamente rivoluzionaria sul piano stilistico e dei contenuti. Il sogno di raccontare la frontiera, il bleeding edge, mi è arrivato anche da lì, poi è rimasto appiccicato e me lo sono portato dietro fino ad oggi.
La mia sensazione è che con il tempo e il mutare del panorama televisivo e del pubblico di riferimento, la divulgazione di Angela (sempre eccellente) si sia concentrata su formati più tradizionali e su temi e argomenti più consolidati, dove ormai era il consenso scientifico era formato e i giochi erano fatti. Da un certo punto in poi (più o meno dalla fine degli anni ’90) suoi programmi sembrano puntare soprattutto ad “alfabetizzare” un pubblico generalista e digiuno di scienza, divulgando (benissimo) nozioni consolidate con un formato fisso e rassicurante, più che appassionare un pubblico giovane e “affamato”.
Obbiettivo buono e giusto, che lui stesso ha sempre dichiarato di voler ottenere, ma che forse ha tolto enfasi al racconto “cutting edge” e alla sperimentazione delle prime trasmissioni, dove si entrava (anche letteralmente, con gli effetti speciali) nella ricerca e nella meraviglia della scoperta.
Non è ovviamente una colpa. Nelle sue parole, anche recenti, Angela mostra una lucidità e una freschezza che molti giovani dovrebbero invidiare, e che gli stessi giovani apprezzano, ma non si può chiedere a un autore avanti negli anni, per quanto geniale, di mantenere la stessa spinta di sperimentazione e innovazione. Considerato anche un pubblico televisivo di riferimento che per ragioni demografiche è sempre più vecchio, mentre i giovani si rivolgono a canali differenti.
Casomai è mancata, da parte della TV italiana, la volontà di “mettere a sistema” Angela, di completare l’offerta divulgativa investendo seriamente su programmi nuovi che sfruttassero magari la sua scia, proponendo la stessa qualità e livello scientifico ma con formati diversi, con più enfasi sulle sfide e la scoperta in diretta, proprio come il primo Angela ci aveva abituato.
La BBC, ad esempio, ha un mostro sacro come Attenborough, praticamente coetaneo di Angela, ma questo non le ha impedito di sperimentare una miriade di nuovi formati divulgativi sfruttando anche il traino dei suoi documentari. Da noi questo non è accaduto, a parte qualche esperimento sul web, ed è un peccato.
La divulgazione, come tutto il panorama comunicativo, è o dovrebbe essere un ecosistema dove accanto ad un blockbuster generalista fatto benissimo come SuperQuark sarebbe utile proporre approfondimenti o spin-off con formati diversi, magari rivolti ad altri target.
Con Angela purtroppo non ho mai lavorato, anche se ho avuto l’onore di essere intervistato nelle sue trasmissioni. Ho tuttavia la fortuna di conoscere bene alcuni suoi stretti collaboratori, cosa che mi permette di notare un aspetto importante e poco pubblicizzato del suo metodo: la qualità dei giornalisti, esperti e autori di cui si è sempre avvalso.
Angela notoriamente lavorava con un gruppo relativamente ristretto di persone che cambiava di rado. Competenza, sobrietà e serietà nel lavoro sono caratteristiche comuni a tutti i collaboratori di Angela che conosco.
Magari mi sbaglio, ma non credo si potesse collaborare a lungo con Angela- da giornalisti o esperti- e contemporaneamente fare i pazzi sui social straparlando della qualunque. La capacità di circondarsi di persone valide e affidabili e tenersele strette (e vale anche per gli scienziati che intervistava) credo sia stata una costante e un motivo di successo nella carriera di Angela. Il fatto poi di avere creato una squadra duratura è una cosa preziosa che purtroppo accade raramente nel nostro mestiere.
Angela, un giornalista senza formazione scientifica, è diventato il primo e più importante divulgatore italiano. Confermando l’idea che l’esperienza diretta in ricerca può servire (a me ad esempio serve moltissimo) ma non è obbligatoria se ci sono talento, capacità giornalistiche, curiosità, sano pensiero scettico e un atteggiamento realistico, rispettoso ma senza complessi di inferiorità o totem nei confronti della ricerca e di chi la pratica.
Dato che era molto spiritoso, Angela si sarebbe sicuramente divertito leggendo i commenti di alcuni scienziati che sui social piangono (giustamente) la perdita del più grande divulgatore italiano e solo qualche post prima dichiaravano che gli unici veri divulgatori devono essere per forza scienziati. La sottostante dissociazione cognitiva sarebbe stata certamente motivo di ilarità per il Piero nazionale.
Ci ha lasciato una grande mente, lucida e coerente fino alla fine. In qualche modo siamo tutti figli o nipoti di Piero. Ma non siamo del tutto orfani. Abbiamo tanti ottimi divulgatori che lavorano con passione, competenza ed esperienza. Diamo loro spazio, lasciamoli liberi di sperimentare a loro volta e offriamo una possibilità di cercare un nuovo pubblico e nuovi formati. Sarà il migliore modo per ricordare Angela e portare avanti la sua eredità.
©Sergio Pistoi 2022
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1,7 Million
Quando chiesero a Marina Abramovich cosa è l’ “arte” lei rispose che se un’opera o una performance le fai nel posto giusto, la chiamano arte, altrimenti no. (non è una citazione verbatim ma il concetto è quello).
Parafrasando potremmo dire che nel mondo culturale italiano la definizione di “giornalismo” o “informazione” dipende molto da dove la fai. Se ad esempio una cosa la fai in TV o in certe testate si chiama “giornalismo”, “informazione” o “cultura”, anche se la fai male e ti vedono quattro gatti. Se invece la fai su Youtube sei uno “youtuber”, (sottinteso in certi ambienti: l’equivalente culturale di un buffone, o di un intrattenitore). Anche se la fai bene, anche se trasmetti messaggi molto più efficaci e ti vedono in tanti.
La classifica di “serietà” percepita nel mondo dell’informazione italiano, diciamo così piuttosto autoreferenziale, potremmo riassumerla nel modo seguente:
-Se sei un giornalista e vai in TV, sei arrivato.
-Se sei un giornalista e stai su Twitter, sei un giornalista.
-Se sei un giornalista e stai su Facebook, cazzeggi con le foto dei viaggi o ti fai promozione con i boomers.
-Se sei un giornalista e stai su Youtube, sei uno youtuber.
(Se sei un giornalista e stai su Instagram, sei semplicemente a caccia di f.ga.)
Ora a me questo schema crea diversi problemi. Prendiamo ad esempio Youtube. Un mio video sui vaccini è il terzo contenuto italiano più visto sul tema con 1,7 milioni di visualizzazioni (poco dopo quelli di Cartoni Morti e escludendo un paio di inutili video di battibecco acchiappaclick presi dai talk show ).
Non sono qui a fare l’apologia delle views: chi segue i miei corsi di comunicazione sa quanto consideri poco rilevanti queste metriche da sole.
Il punto è che molti miei video Youtube, dati Nielsen alla mano, hanno in media una audience più alta della maggior parte dei programmi TV di daytime e anche di certi programmi serali. I miei video durano peraltro durano 15-20 minuti e oltre, contro i 30 secondi medi di approfondimento offerto dalla TV generalista. Sulla rispettiva qualità dei contenuti non dovrei essere io a giudicare, e non lo farò, ma sui numeri questa è la realtà, e vale a maggior ragione per i canali social di colleghi che sono anche più seguiti di me.
Eppure Youtube, nella mente di molti, resta un medium da sfigati, di quelli “che in TV non ci vanno e quindi si arrangiano in casa”.
Niente aurea di expertise perché te la suoni e canti da solo, in casa tua, con le magliette sceme.
Non vale solo per Youtube. Quando per mesi, durante la pandemia, ho scritto su Facebook critiche documentate riguardo al CTS, sono rimaste dov’erano: nel mondo social, seppure lette e apprezzate da migliaia di lettori e scopiazzate (maluccio) da qualche giornalista che le aveva lette. Dopo che ho pubblicato sostanzialmente gli stessi contenuti su Nature Italy i dubbi sono entrati nel dibattito pubblico e hanno avuto un discreto impatto, e io stesso sono stato chiamato a parlarne nei media “mainstream”.
D’accordo, Nature è una rivista seria, quello che ho scritto è stato soggetto ad una verifica editoriale, ed è logico che si goda di un autorevolezza di riflesso data da una testata prestigiosa. Ma questo giustifica tutta questa differenza nella percezione? E quante testate italiane effettuano lo stesso controllo editoriale ai contenuti? (spoiler: nessuna)
Vi faccio un altro esempio: i libri. Mi è capitato di parlare di DNA in un libro che mi ha dato molte soddisfazioni e poi di declinare lo stesso contenuto in alcuni video divulgativi su Youtube. Nell’asfittico mondo culturale italiano, il libro è stata la vera “patente” per entrare nel dibattito, con il corollario di inviti ai festival e agli eventi (quelli pagati, s’intende, per quelli gratis va sempre bene tutto). Non mi lamento, si intende. Però i video ( stesso tema, stesso autore: io) hanno raggiunto un pubblico quasi cento volte maggiore.
Avere pubblicato un libro è oggettivamente una garanzia di maggiore qualità dei miei contenuti? No, e lo dico da autore di libri. Quello che scrivi è quello che esce, fatto salvo l’utilissimo intervento di redattori e correttori di bozze sui testi. La qualità dipende dal contenuto, non dal mezzo. Ma mettere “autore del libro tal di tale” nel sottopancia è un’altra cosa.
L’impressione è che l’attaccamento al supporto, al medium, invece che al contenuto raggiunga livelli quasi feticistici in certi ambienti culturali. E’ un loop autoreferenziale che alla fine fa sì che certi canali e testate e chi li frequenta abitalmente siano sovrastimati e a volte sovrafinanziati. Il fattore economico è evidentemente fondamentale, così come quello della cost-effectiveness di certi media, ma ci tornerò in altre occasioni.
Per ora mi fermo qui, sottolineando che resto un giornalista scientifico in tutti i canali, anche in quelli dove il giornalismo secondo alcuni non esiste. Almeno finché ne avrò voglia e tempo.
Russia: Come Funzionano le Fabbriche di Fake News
“I troll non sono sfaccendati: è il loro lavoro”. Il mio ultimo video targato Rockscience è un’intervista a Marta Ottaviani, autrice di “Brigate Russe: La guerra occulta del Cremlino tra troll e hacker“. Un viaggio nelle fabbriche di disinformazione e sulla “guerra non lineare” di Putin che ha impattato fortemente anche sulla comunicazione di Covid e vaccini.
Non perdetevelo. Grazie ancora a tutti i sostenitori che hanno reso possibile il video.
IL CENTENARIO CHE QUASI SFIDO’ LA BIOLOGIA
In paese dove la filantropia ancora si chiama “beneficenza”, Marino Golinelli è stato un raro esempio di mecenatismo moderno
Ho avuto la fortuna di incontrare Marino Golinelli in due occasioni legate a momenti importanti della mia carriera e che ricordo con emozione. La prima volta fu a Milano nel 2000 per la consegna di un prestigioso premio giornalistico per la divulgazione della genetica, di cui la sua Fondazione era sponsor.
Ero all’inizio della mia carriera, arrivai terzo ma ero contento come se avessi vinto. In fondo era il primo riconoscimento che avessi mai avuto per il mio nuovo lavoro.
Quel giorno alla cerimonia intervennero quisquilie come Craig Venter – ancora non famosissimo da noi ma che l’anno successivo avrebbe condiviso i riflettori alla Casa Bianca per l’annuncio della mappa del genoma umano- e Victor McKusick -un pezzo di storia della Genetica, il mitico creatore del database OMIM, una “bibbia” per chiunque abbia a che fare con la genetica. McKusick era già piuttosto anziano e molto schivo e quasi si commosse quando lo presi in disparte e lo ringraziai per la sua opera lontana dai riflettori ma così utile per tantissimi biologi, medici e pazienti.
Insomma era come essere nella versione nerd della serata degli Oscar, e avevo preso pure una statuetta.
Quella volta feci la mia prima conoscenza con Marino Golinelli, con cui era impossibile non finire a parlare del futuro. Lo so, è quello che dicono tutti ma è vero. Mi resi conto quasi subito di parlare con qualcuno per cui il futuro, e di conseguenza lo sviluppo tecnologico, erano quasi una fissazione, un fil rouge che legava conversazioni e pensieri. Si parlò di cosa sarebbe cambiato con la mappatura del genoma, di quanto avrebbe modificato anche le nostre vite quotidiane.
L’altra caratteristica stupefacente di Golinelli, che tutti notavano, era un’età apparente che sembrava sfidare le leggi della biologia. Il Golinelli teoricamente anziano che vidi quel giorno e quello ultranovanenne che incontrai anni dopo conservavano entrambi la lucidità e l’entusiamo del ventenne. Ma anche nel fisico e nel portamento l’uomo che conobbi io dimostrava almeno 20-25 anni in meno rispetto all’anagrafe.
Lo rincontrai anni dopo, quando fui chiamato a parlare ad un evento divulgativo dalla sua Fondazione, a Bologna. Volle invitare tutti a casa sua, un bel palazzo dietro Piazza Maggiore, per un piccolo ricevimento. Mi ritrovai in un ambiente informale ed eccentrico. La casa era, e credo sia tuttora, una specie di galleria vivente di opere che Marino Golinelli e la moglie Paola acquistavano per sostenere giovani e sconosciuti artisti.
Invece di ostentare quadri milionari comprati all’asta- che pure si potevano permettere e magari avevano anche da qualche parte- i Golinelli preferivano mostrare agli ospiti le opere di giovani emergenti che un preparato cicerone (credo fosse il suo curatore di fiducia) ci raccontava girando per le stanze e cercando di farci entrare nella mente dell’artista.
Perfino in bagno mi trovai inquadrato da una telecamera a circuito chiuso che proiettava la mia immagine in falsi colori su uno schermo cyberpunk fissato davanti al water. Era una delle tante opere contemporanee che ornavano la casa, e che naturalmente fu oggetto di divertenti discussioni.
In quell’occasione ricordai a Golinelli il nostro primo incontro. Fu contento di avermi portato fortuna e si parlò, ovviamente, del futuro. In un paese che guarda sempre indietro, con gente di ogni età fissa sullo specchietto retrovisore del passato, mi colpì e commosse ascoltare quell’uomo già oltre i novanta (anche se ne dimostrava molti meno), discutere con passione di sviluppi e realtà a venire che sicuramente non avrebbe visto con i suoi occhi, ma che quasi riusciva a toccare con mano.
Ho ripensato molte volte a quella conversazione e ne ho parlato negli anni a tutti quelli che mi capitavano a tiro. Al momento di partire lo salutai chiedendogli per scherzo, ma neanche tanto, se avesse donato il suo DNA per gli studi sulla longevità, cosa che, ovviamente, era dispostissimo a fare.
Marino Golinelli, imprenditore e mecenate, ci ha lasciati sabato scorso a 101 anni. La biologia- di cui il suo aspetto e spirito sembravano quasi farsi beffe- alla fine ha prevalso, e forse lui sarebbe il primo a restare affascinato da questa cosa.
Spero tanto che i suoi ultimi anni siano stati come quelli in cui l’ho visto io.
In un paese dove la filantropia ancora si chiama pelosamente “beneficenza”, dove tanti paperoni si fanno belli con quattro soldi, poco sforzo e nessuna visione, Golinelli è stato un esempio di mecenatismo moderno e ha lasciato un’impronta e un’eredità tangibili nella società e in quelli che l’hanno conosciuto.
Un abbraccio alla famiglia e agli amici della Fondazione Golinelli.
Photo credit: Fondazione Golinelli
Come smettere di litigare con i Palloni Gonfiati Pandemici
Il ghosting è il sistema più efficace per disinnescare gli esperti da talk show. Il decalogo.
Continuo ad assistere alquanto sconsolato alle piazzate social che vedono da una parte valenti ricercatori e/o bravi giornalisti scientifici, gente che si spende per informare con competenza ed efficacia, e dall’altra un noto manipolo di Virologi da talk show, che per brevità chiameremo Palloni Gonfiati Pandemici, medici ed accademici che imperversano su tutti i canali con sparate sempre più spettacolari, venerati con fanatismo sui social e considerati perfino come fonti affidabili da una parte consistente della stampa generalista.
Se mi seguite, i primi già li conoscete, così come dovreste avere imparato a riconoscere i Palloni Gonfiati. Dato però che queste litigate – che vi risparmio nei dettagli- sono ormai un genere letterario a sé, mi sono permesso di raggruppare in questa mini-guida qualche appunto sparso di strategia comunicativa (cosa che faccio per lavoro da 23 anni) a beneficio dei primi.
1) I Palloni Gonfiati Pandemici prosperano nella polemica social e mediatica. La loro strategia di comunicazione, mutuata dai politici demagoghi e ciarlatani (gli stessi che si vantano di contrastare), si basa sul conflitto, l’assertività, l’escalation polemica e l’atmosfera circense da talk show. Ogni volta che rispondete ad un loro tweet, ogni volta che li ricondividete o mettete un loro screenshot anche solo per sputtanarli, in realtà li fate vivere e propagate i loro memi tossici anche a chi non li segue e non li vedrebbe mai.
2) Un aspetto fondamentale in comunicazione pubblica è l’agenda-setting, e cioè chi decide l’argomento della conversazione. Non fosse altro perché il tempo e lo spazio per le conversazioni sono limitati. Quando rispondete alle sparate continue di certi fenomeni sono loro a dettare l’agenda. Il vostro tempo, i vostri sforzi e l’attenzione di chi vi segue sono dirottati verso i temi e i tagli comunicativi e nei modi, tempi e toni che convengono a loro. Non state facendo la vostra comunicazione, ma partecipando a quella di altri. I post divisivi e le asserzioni assurde non sono un tic di certi politici – e probabilmente neanche di certi scienziati da social- ma una forma efficace di agenda setting. Andando dietro, fate il loro gioco.
3) Se pensate che queste considerazioni siano teoriche o troppo raffinate per le vostre “controparti”, o che voi prevarrete grazie ad una statura intellettuale o morale superiore, significa che loro sono più furbi di voi e che non avete l’esperienza minima di comunicazione per entrare nell’agone pubblico. Neanche da spettatori. Rivalutate.
4) Il modo più efficace e sperimentato per togliere ossigeno a quei personaggi è il ghosting. Ignorarli. Silenziarli nei vostri feed social, silenziare quelli che li condividono. Non guardare le trasmissioni dove sono ospiti. Se per caso siete invitati a programmi o eventi, chiedere la lista degli altri ospiti e non condividere il palco con loro (il consiglio generale è comunque quello di non andare MAI nei talk show a prescindere). Evitare assolutamente di rispondere loro direttamente o intervenire nei loro canali (anche perché non li dovete seguire). In questo modo si abbassa l’Rt dei memi tossici e ci si concentra sulla propria agenda. Nei miei feed certi personaggi non compaiono mai, se non perché ricondivisi da altri, che in genere silenzio a loro volta per abbassare il rumore di fondo.
5) Forse penserete che questo sia sbagliato perché è un vostro dovere civico evitare che girino le informazioni errate e potenzialmente pericolose. La realtà è che non potete impedire che i memi di altri si diffondano tra quelli che li seguono. Una certa quota di pubblico (anche consistente) è semplicemente refrattario al ragionamento logico e va dietro alla prima persona assertiva che gli dice quello che vorrebbe sentire (v. “target” più avanti). Non potete farci niente. Meglio concentrarsi sulla propria agenda comunicativa, e diffondere messaggi corretti al proprio pubblico, cercando magari di fare crescere la propria piattaforma comunicativa. Se una fonte è smaccatamente inaffidabile si ignora, non si controbatte sistematicamente.
6) La comunicazione funziona per target. I vostri colleghi Palloni Gonfiati Pandemici hanno un target generalista, puntano alla massa. La loro comunicazione non è rivolta ad un target interessato alla scienza o alla complessità. Hanno agende di interesse personale, economico e talora politico – su cui magari torneremo ad approfondire. Praticano sovente il bullismo. Battono su un pubblico che probabilmente non è il vostro e su cui difficilmente avrete presa con i vostri (corretti) ragionamenti. I loro argomenti, lo vediamo sono spesso slogan senza alcuna coerenza nel tempo: proprio come il modo di pensare del loro target, la cui memoria storica è di poche ore, e la cui soglia di attenzione non supera qualche secondo. Le loro asserzioni sono spesso demagogiche e puntano a dire esattamente quello che il loro pubblico vorrebbe sentirsi dire in quel momento. A meno di diventare come loro, non avrete mai presa efficace su quel pubblico. Il vostro target, probabilmente è diverso e non avete bisogno di polemizzare con altri per intrattenerlo.
7) La polemica social, specialmente su Twitter, ricalca le dinamiche perverse dei talk show, che sono un genere di intrattenimento e non di informazione. Il pubblico che segue questi scambi anche tra scienziati, è lì per vedere il sangue. Se il vostro obiettivo è stare in un ring con il pubblico che sbava, allora siete apposto. L’importante è capire che in questo modo fate intrattenimento, non informazione. Ogni tanto l’ho fatto anch’io il polemico: basta essere consapevoli di quello che si ottiene. Quando litigate con questi Palloni Gonfiati dove volete arrivare?
8 ) La cosa più utile è continuare a fare pubblicamente è quello che già molti di voi fanno benissimo: condividere analisi e informazioni accurate con chi vi segue, stabilendo voi la scansione di temi e tagli senza rincorrere le agende altrui. In pratica: parlare di quello che conoscete bene, trasmettere la vostra passione nei tempi e modi che vi risultano più congeniali, chiarendo le idee a molti, coinvolgendo un target ricettivo e fornendo strumenti utili anche a chi per lavoro racconta questi argomenti ad altri. Il vostro impatto sarà probabilmente superiore a quello che immaginate, anche in termini numerici.
9) Tutto questo non significa ovviamente rinunciare alla dialettica o polemica scientifica, che sono fondamentali e possono essere anche virulente, come insegna la storia della scienza. Bisogna però farlo nelle sedi opportune. Se tizio o caia insegnano all’università e sparano continuamente evidenti baggianate fatevi piuttosto un dossier da sventolare loro in faccia al primo meeting scientifico, oppure da appendere alla bacheca della facoltà o fare girare nelle sedi professionali opportune. La caratura scientifica internazionale di questi personaggi è in genere bassa, anche se pubblicamente appiano larger than life. Se poi ritenete che persone che praticano il bullismo (a volte non solo nei social), magari dotate di dubbie competenze scientifiche non dovrebbero avere un posto accademico beh, siamo tutti d’accordo ma il problema è da risolversi nell’accademia, non sui social.
10) Può capitare nonostante tutto di essere citati, sbeffeggiati o coinvolti direttamente da qualche Pallone Gonfiato Pandemico senza averli provocati. Fa parte della strategia. Il Pallone Gonfiato Pandemico ha bisogno continuamente di avversari per intrattenere il suo pubblico. Non cascateci a pera, con il rischio di fare il loro gioco ed entrare nel ring. Se ci sono gli estremi di diffamazione, attivate direttamente le vie legali senza pubblicizzarlo: vi stupireste a sentire quanti di questi fenomeni, anche di quelli con cui litigate attualmente, sono diventati agnellini dopo una richiesta di risarcimento. Se dovete proprio controbattere, fatelo con stile, a mente fredda, mostrando superiorità, senza rispondere direttamente. Per quanto riguarda infine l’opinione dei colleghi che leggono i social, considerata la reputazione lillipuziana di cui molti Palloni Gonfiati godono nella comunità scientifica, i loro attacchi non dovrebbero essere un grave danno di immagine, anzi.
PS: A scanso di equivoci, quello che segue non è una critica verso la succitata categoria di volenterosi ricercatori che si sono adoperati per informare davvero e in modo efficace, e a cui va il mio ringraziamento. Al contrario, serva ai volenterosi per evitare di infognarsi, anche in buona fede, in tunnel comunicativi di cui sono i primi a dolersi.
I blob esistono!
Avete mai allevato amebe? Io sì.
Un video alla scoperta scientifica di questi mostriciattoli sorprendenti e a modo loro simpatici.
Un must per halloween e un utile video per la didattica.
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A presto!
Sergio