La scienza di Homer
“In questa casa obbediamo alle leggi della termodinamica”
Homer Simpson
E’ colesterolo-dipendente, il suo vocabolario è quello di un bambino di dodici anni e la sua soglia di attenzione è di poco più di tre secondi. Eppure le sue gesta sono seguite da stuoli di milioni di fans (incluso il vostro blogger ). Stiamo parlando del mitico Homer, capofamiglia dei Simpson, una delle serie animate più riuscite ed intelligenti della storia TV.
Per chi li conosce, i Simpsons non hanno bisogno di presentazioni. Chi non li conosce si informi.
E ora chi l’avrebbe mai detto che avremmo visto Homer e la sua sgangherata famiglia nientedimento che sulle prestigiose e ambite pagine di Nature? Nel suo ultimo numero, la rivista scientifica dedica uno speciale alla famiglia di Springfield, e alla scienza che spesso e volentieri fa capolino nelle loro celebri storie. In modo esilarante e dissacrante, come tutto quello che riguarda i Simpson.
E’ divertente scoprire che gli autori dei Simpson sono in realtà “a bunch of geeks”, una banda di secchioni, come Al Jean, lo sceneggiatore capo, laureato in matematica ad Harward, a cui si devono le esoteriche formule matematiche che fanno ogni tanto la loro apparizione nei cartoni. Più che Homer, insomma, è Lisa – la piccola secchiona di casa– il personaggio in cui si rispecchiano di più.
Nature si diletta anche a fare una lista delle Top Ten fra i momenti scientifici della storia dei Simpson. Se lo volete sapere, li avevo visti quasi tutti.
Bioterrorismo soft
L’idea che un virus mortale venga usato da qualcuno per diffondere il terrore è uno degli incubi del nostro tempo.
Ma il bioterrorismo può assumere contorni sottili e inaspettati.
Come insegna la vicenda dei sei medici e infermieri di origine bulgara, accusati senza fondamento di aver deliberatamente iniettato il virus HIV ad alcuni dei loro pazienti. Dopo aver subito otto anni di prigionia, un processo-farsa che li ha visti condannare a morte e poi commutare la pena in ergastolo, la rugginosa macchina della diplomazia UE si è attivata per negoziare l’estradizione dei sei in Bulgaria, dove pochi giorni fa sono stati liberati dalle autorità.
Il lato inquietante di questa storia è il fatto che la Libia abbia usato l’HIV, e una triste vicenda di bambini morti per contagio accidentale, come arma di ricatto nei confronti dell’UE. E alla fine la UE ha calato le braghe, firmando un intesa con il paese nordafricano e barattando la liberazione dei prigionieri con una serie di agevolazioni (da anni la Libia è sotto embargo).
Vale la pena ricordare l’impegno di un nutrito gruppo di ricercatori, tra i quali spiccano equipe dell’Istituto Superiore di Sanità e di Tor Vergata, nel denunciare, dati scientifici alla mano, l’infondatezza delle accuse libiche.
Uno loro studio apparso su Nature nel 1996 è diventato un “J’accuse” scientifico: l’analisi molecolare dei virus dimostrava che il ceppo era già abbondantemente circolante nell’ospedale prima dell’arrivo dei bulgari. Ad uccidere i poveri bambini, insomma, è stata la scarsa igiene dell’ospedale e quindi, semmai, l’incuria delle stesse autorità libiche che gridano “all’untore”.
L’evidenza scientifica e gli appelli di illustri ricercatori non hanno però dissuaso le autorità libiche dal proseguire il loro gioco al massacro. In un certo senso, la Libia ha inaugurato l’epoca del bioterrorismo “soft”, trasformando abilmente l’HIV in una potente arma di ricatto.
La UE scopre il rischio
Per una volta parliamo di ricerca a rischio, ma senza alludere alla scienza nostrana, e al luogo comune secondo il quale sarebbe a rischio di affondare.
No, parliamo invece del rischio inteso come azzardo, il rischio “buono” e calcolato insito nei progetti di ricerca più innovativi, quelli che escono dagli schemi per esplorare strade poco battute.
I progetti ad alto rischio sono un pò negletti dagli schemi di finanziamento classici. I motivi sono tanti, ma diciamo che le collettività preferiscono investire in modo massiccio su ricerche mainstream, che non si allontanano troppo dalla strada maestra, ricerche che magari non promettono di rivoluzionare la scienza ma che hanno il vantaggio di portare più facilmente a risultati tangibili nel loro ambito.
Nella UE ci si sta però accorgendo che di ricerca ad alto rischio, almeno un pò, c’è bisogno.
Un sondaggio UE che verrà a breve pubblicato, e di cui parla CORDIS ha individuato 40 agenzie europee di finanziamento che affermano di avere programmi specifici a sostegno di progetti di ricerca senza precedenti o «rischiosi». «è un dato molto più elevato di quello che ci aspettavamo all’inizio», ha osservato Patrick Prendergast del Trinity College di Dublino, che ha condotto l’indagine.
L’indagine è nata nell’ambito di NEST-PROMISE , un progetto del Vi programma quadro.
«Le revisioni tra pari compiute da esperti tendono a essere conservatrici e a non volersi assumere il rischio di una proposta nuova. Preferiscono finanziare la “scienza sicura”, sottolineando l’importanza del curriculum. La revisione tra pari e il curriculum spingono a mantenersi entro le consuetudini della disciplina»
scrive CORDIS, che cita l’esempio di Ideas Factory, un’iniziativa britannica che utilizza un approccio creativo e curioso basato su workshops interattivi di sei giorni, chiamati simpaticamente «sandpit» (il recinto di sabbia dei parchi giochi).
Scienziati in mezzo alla sabbia con paletta e secchiello a caccia di idee. Le battute potrebbero sprecarsi. Ma devo dire che è un’immagine che mi piace, una bella sintesi del lavoro creativo che troppo spesso la ricerca moderna mette in secondo piano.
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Il flop del LiveEarth
“Live Earth ha prodotto una grande noiosa nuvola di CO2”
The Guardian – 9 luglio
Il commento del newspaper britannico, che ho raccolto su Blogosfere, sintetizza efficacemente il sentimento che predomina a qualche giorno di distanza dal megaconcerto del 7 luglio scorso, promosso da Al Gore per sensibilizzare il mondo sui problemi del riscaldamento globale e dell’ecologia.
Una cosa è certa: sul piano puramente mediatico, il concerto è stato un flop. Pochi gli spettatori: davanti al palco non si può dire che la gente fosse assiepata, e la diretta live ha avuto uno share ridicolo.
Ironizzare, come hanno fatto molti giornali, sui musicisti multimiliardari e un pò attempati che si sono alternati sul palco per salvare la Terra e girare il coltello nella piaga alludendo ai loro risultati musicalmente deludenti (vedi reunion dei Police) è come sparare sulla Croce Rossa.
Così come era chiaro a tutti, e fin dall’inizio, che un megaconcerto “verde” è una fregatura mediatica, o al meglio una trovata di marketing: fra TIR, aerei e spostamenti del pubblico, ogni concerto del LiveEarth ha prodotto più CO2 di quanta ne potranno mai generare tutti i lettori di questo blog durante la loro vita.
Ma al di là della facile ironia, queste critiche sono soltanto dettagli, se viste in una strategia più ampia.
Strategicamente parlando, tutta la CO2 e i rifiuti prodotti dal LiveEarth sarebbero ben spesi, se portassero a sensibilizzare il pubblico globale, portando tutti a generare meno emissioni. Se così fosse, in termini puramente economici il LiveEarth sarebbe un investimento fruttuoso.
Quello che molti si chiedono è se, in effetti, iniziative del genere hanno o meno un impatto sul pubblico. Quanti di noi ridurranno le loro emissioni, dopo aver visto il LiveEarth o averne sentito parlare?
Un esperto di comunicazione risponderebbe che, per ottenere questo risultato, alla base dell’evento dovrebbe esserci una strategia comunicativa, seguita da una valutazione dei risultati. E’ quello che avviene in ogni campagna pubblicitaria.
Ma se il messaggio-chiave dell’evento è quello lanciato da Madonna “If you want to save the planet, let me see you jump!” , verrebbe da dire che di strategia ce n’è veramente poca. Il LiveEarth è stato solo uno stunt mediatico per stelle in decadenza, come scrive il LA Times, o qualcosa di più?
Il museo di Adamo ed Eva
Al mio primo giorno di scuola la maestra ci raccontò la sua versione dell’evoluzione, parlandoci di Adamo ed Eva. Tornai a casa con le idee un pò confuse e raccontai ai miei genitori che quel giorno avevo imparato il nome del primo uomo: “Amedeo”.
Si vede che già allora non ero tagliato per credere al creazionismo.
O forse sono stato semplicemente fortunato: il pensiero catto-creazionista della mia rurale maestra era debole e poco strutturato, poco più di una raccolta di aneddoti biblici da parrocchia di campagna. Non abbastanza, comunque, da fare presa sulla mente credulona ma non stupida di un seienne.
Non sarà così invece per le frotte di poveri, innocenti infanti che verranno trasbordati da compiacenti insegnanti a visitare il Giardino dell’Eden, a esplorare la Caverna delle Sofferenze e a vedere i terribili effetti della Caduta dell’Uomo.
Sono queste alcune delle eccitanti sale che grandi e bambini potranno attraversare nel Museo della Creazione, un monumento da 27 Milioni di dollari al delirio antiscientifico da poco inaugurato a Petersburg, nel Kentucky (dove altro poteva sorgere il museo dei creazionisti, se non nello stato USA dove la “teoria” della creazione divina viene insegnata accanto a quella di Darwin?).
Il percorso del museo è studiato alla perfezione per essere una copia dei veri musei scientifici, una sorta di versione pirata del Natural History Museum dove tutto è fatto per convincere i visitatori che la teoria di Darwin è una buffonata, e che solo la Bibbia può spiegare il mondo così come lo conosciamo oggi.
La manipolazione mentale è una questione di metodo.
Cosa sarebbe successo se invece delle poco convincenti argomentazioni della maestra, peraltro prontamente smentite nel sussidiario, mi avessero portato a fare un giro al museo della creazione? Cosa sarebbe successo se leggendo il sussidiario avessi trovato la “teoria” creazionista spiegata accanto a quella darwiniana- e con pari dignità scientifica?
Sarebbe arrivato il mio cervellino di seienne a capire che c’era sotto una fregatura ben organizzata? Probabilmente no. Ci sarei cascato.
E’ per questo che provo un pò di pena quei poveri bambini che entreranno con le loro maestre nel biblico museo del Kentucky.
Mussi, se ci sei batti un colpo.
Le buone intenzioni c’erano. Ma le riforme promesse dal ministro Fabio Mussi su Università e ricerca sono ancora lettera morta. E così, anche chi all’inizio aveva dato fiducia al ministro ora comincia a stufarsi, e si lamenta delle tante promesse non mantenute.
Nel giro di poche ore sono usciti un articolo dell’Espresso (Chi ricerca non trova- La riforma in un vicolo cieco), un appello firmato da 200 ricercatori pubblicato online dal Messaggero, e una bella lettera di Margherita Hack, Francesca Matteucci e Patrizio Dimitri.
In tutti i casi la lista delle doleances è simile: la riforma promessa da Mussi è in fase di stallo, e intanto l’intera ricerca italiana rischia la paralisi.
I fondi Prin (per i progetti di ricerca di base) che pure ci sono, rimangono bloccati per un cavillo burocratico, mentre il reclutamento dei nuovi ricercatori è congelato, in attesa che vengano varate nuove norme che dovrebbero garantire maggiore trasparenza e meritocrazia.
Ma quali saranno queste norme? Non è ancora chiaro a nessuno. Mussi sta cercando una mediazione con vassalli, valvassori e valvassini che siedono nel Consiglio Universitario Nazionale (CUN) e nella Conferenza dei Rettori, che continuano ad opporsi ad ogni proposta di cambiamento sostanziale del sistema dei concorsi, in linea con la loro politica gattopardiana del “tutto cambi perchè nulla cambi”.
Da parte sua, Mussi non sembra avere le idee chiare su cosa vuole fare, e continua a cercare soluzioni estremamente farraginose che non risolveranno il problema dei concorsi e che, per ora, scontentano tutti.
Fabio Mussi ha promesso che avrebbe messo mano al sistema dei concorsi universitari e all’assegnazione dei fondi per la ricerca. Per ora di parole se ne sono sentite tante. Di fatti, praticamente nessuno.
Da qualche parte, il gattopardo se la ride sotto i baffi.
La democrazia delle pubblicazioni
L’open access, cioè l’accesso libero alle pubblicazioni scientifiche, è uno degli argomenti di discussione più caldi del momento.
Da una parte c’è la comunità scientifica, che si sta convincendo sempre più che non è giusto pagare costosi abbonamenti alle riviste per accedere ai contenuti prodotti dalla comunità stessa (e talvolta sborsare anche page fees per vedere pubblicati i lavori scientifici); dall’altra ci sono gli editori, che vedono minacciato l’attuale modello di scientific publishing.
Ad interessati e curiosi segnalo un interessante articolo di Alma Swan di introduzione all’argomento.
Una traduzione italiana la trovate (a pagamento) su Internazionale del 14 Giugno scorso.
Va dove ti porta il portafogli
Dov’è che i ricercatori guadagnano di più? Secondo un interessante report appena pubblicato dalla UE, l’Austria è il paese europeo dove, a conti fatti, il portafogli dei ricercatori rimane più gonfio.
Il report tiene conto non solo degli stipendi in valore assoluto, ma anche del loro valore relativo in funzione del costo della vita che, chiaramente, varia da un paese all’altro (tecnicamente si parla di purchasing power parity o PPP).
Da queste statistiche è chiaro che non sempre il conto in banca e la passione scientifica vanno d’accordo: ad esempio, l’Austria non brilla nell’agone internazionale fra i paesi a più alta produttività scientifica, e a occhio e croce non è fra i posti dove il ricercatore medio sogna di andare a lavorare.
In rapporto, però, si guadagna in media un buon 30% per cento in più rispetto agli UK, per molti la mecca europea della ricerca. Detta così sembra un pò la famosa statistica del pollo, ma se leggete bene il rapporto troverete anche analisi più approfondite, riguardo ad esempio alla forchetta fra le retribuzioni minine e massime, e fra uomini e donne (tranne che a Malta, sempre più basse per il gentil sesso).
E l’Italia? Se dicessimo che è fra le ultime in Europa anche per le retribuzioni medie dei ricercatori diremmo una cosa vera ma che somiglia alla solita, italica lamentela. E invece, non dobbiamo correre il rischio di confrontare pere con banane.
Se è vero che i ricercatori guadagnano poco, ma è anche vero che vivono in un sistema in cui potrebbero mantenere il posto anche senza produrre molto (anche se moltissimi producono scienza eccellente, cosa che, visti gli stipendi, fa loro doppiamente onore). Inoltre, il loro salario è generalmente a vita (almeno per i ricercatori pubblici) al contrario di colleghi che hanno stipendi più alti (vedi UK e USA), ma che sono sottoposti a verifica durante tutta la carriera. Stipendi più alti per i ricercatori sarebbero dunque cosa buona e giusta ma solo se legati ad una selezione meritocratica (che oggi manca) e alla verifica continua (manco a parlarne..). Altrimenti siamo alle solite.
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