Arriva il Pangenoma: ecco cosa cambia
La mappa del pangenoma umano pubblicata in questi giorni è l’ultimo e forse definitivo progetto per catalogare le diverse varianti genetiche umane ed è destinata a diventare il nuovo riferimento per la genomica.
Sapevamo fin dall’inizio che la mappa del genoma era insufficiente a descrivere la variabilità genetica umana, come ho discusso ampiamente nei miei libri sul DNA. Si tratta infatti di una sequenza di riferimento costruita a partire da un pugno di individui che non rappresenta affatto la diversità genetica della specie.
Non che finora le differenze individuali siano state ignorate, così come i limiti della sequenza di riferimento. Possiamo dire con buona approssimazione che la genomica contemporanea si basa sullo studio delle differenze, alimentata anche dal numero sempre crescente di genomi individuali presenti nei database e dai progetti di ricerca sulla variabilità umana che erano già iniziati all’alba della genomica; alcuni li ho vissuti in prima persona e raccontati.
Di molte varianti conosciamo già la frequenza nelle diverse popolazioni e quasi tutte le applicazioni biomediche, nonché i siti di home genomics, tengono conto dell’esistenza di queste differenze. Si è fatto tuttavia finora a spizzichi e bocconi, tenendo conto di una miriade di sequenze genomiche da fonti diverse, con tecniche e qualità diverse e soprattutto senza un vero e proprio riferimento con cui confrontare i dati.
Un po’ come se tutti i geometri del mondo prendessero le misure in modo piuttosto preciso usando i loro strumenti e anche con un discreto scambio di dati, ma senza avere un metro di riferimento universale a cui rapportare i dati.
La mappa pangenomica è importante perché ci aiuta a catalogare e comprendere meglio la diversità genetica umana e a identificare varianti genetiche associate a malattie e ad altre caratteristiche umane.
L’applicazione più pratica e immediata che forse non tutti colgono riguarda invece la qualità delle analisi genetiche che si fanno ormai a milioni, quotidianamente e in tutto il mondo. Per capire, devo spiegare brevemente cosa succede quando si decodifica un DNA umano.
Quando si legge un genoma umano, non si può avere una sequenza ininterrotta delle lettere che lo compongono: con le tecniche attuali si possono leggere al massimo pezzi di qualche decina di migliaia di lettere (chiamate long reads) o più spesso di qualche centinaia di lettere (short reads). Un genoma umano diploide è però di 6 miliardi di lettere. Si tratta quindi di leggere tantissimi frammenti del DNA e poi metterli uno dietro l’altro in modo che siano una rappresentazione fedele di quel particolare genoma.
Questo assemblaggio (genome assembly) è un po’ come unire i pezzi di un puzzle, considerato però che qui i pezzi di DNA possono sovrapporsi, il che rende ancora più difficile l’opera. Ogni volta che si legge un genoma (il mio, ad esempio, è stato letto, e forse anche il vostro), gli algoritmi di assemblaggio mettono i vari pezzi in ordine usando come riferimento la mappa (di riferimento, appunto) del genoma umano. La mappa del genoma è come la foto del puzzle completo stampato sulla scatola e su quella si lavora per mettere insieme i pezzi.
Tuttavia, come abbiamo detto, la mappa di riferimento attuale non rappresenta la variabilità umana ma solo il genoma di pochi individui. Il mio DNA e il vostro contengono sicuramente alcune sequenze in più o in meno rispetto a quella mappa, così come sequenze orientate in modo diverso o spostate altrove. Ognuno di noi possiede pezzi del puzzle che nella foto di riferimento mancano oppure sono sistemati diversamente.
Per questo, ogni volta che si legge un genoma, gli algoritmi di genome assembly devono fare i salti mortali per dargli un senso e utilizzare i dati disponibili e la statistica per riempire in modo convincente i pezzi che non combaciano. Il risultato è spesso troppo incerto per le applicazioni di precisione. Pensiamo ad esempio alla diagnosi di varianti legate ai tumori o alla previsione di malattie. Inoltre, alcune popolazioni sono sottorappresentate nelle statistiche, complicando ulteriormente le cose.
Una mappa pangenomica è un passo importante per superare questi limiti. Si tratta infatti di un riferimento aggiornato, e più rappresentativo con cui gli algoritmi confronteranno ciascuna nuova lettura, trovando molti meno pezzi discrepanti. Sistemare tutto ciò in termini computazionali sarà forse un piccolo incubo, ma per questo abbiamo ottimi programmatori e potenze di calcolo sempre migliori.
NPR lascia Twitter. L’incubo delle piattaforme si avvera?
Una delle più grandi e prestigiose media organization- con la quale ho avuto anche il piacere di collaborare- smetterà di postare nuovi contenuti su Twitter. Il casus belli è il label (governement-funded media) che Musk ha arbitrariamente affibbiato a NPR e che l’emittente rifiuta categoricamente. Ma non è sul motivo dello scontro che mi interessa riflettere.
Il punto è che NPR è forse il primo grande produttore di contenuti a mettere le piattaforme social di fronte al loro vero incubo: rimanere senza contenuti. Cosa che si sta silenziosamente realizzando, a prescindere dalla mossa di NPR.
Le piattaforme non diventano miliardarie con le foto di quello che hai preparato per cena o con le lamentele su come di sei svegliato stamattina. Alla base del modello di business delle piattaforme social c’è la produzione massiccia e soprattutto GRATUITA di contenuti da parte di una minoranza di profili.
Senza una quota sufficiente di contenuti davvero engaging, che facciano discutere, una piattaforma social collassa su se stessa come un cartone vuoto. Le piattaforme non sono in grado di produrre autonomamente contenuti. O meglio lo sarebbero, ma costerebbe troppo e il modello collasserebbe comunque.
Ogni giorno, miliardi di utenti scrivono commenti, leggono e discutono contenuti prodotti da pochi milioni di “creatori di contenuti” che li postano gratis sui social.
A monetizzare però è la piattaforma, non chi ha prodotto il contenuto.
Questo modello ha funzionato benone fino a poco tempo fa ma mostra lentamente le sue crepe, sotto forma di una carenza di contenuti originali che è sempre più evidente.
Dopo anni di tempo regalati alle piattaforme, sempre più creatori di contenuti si chiedono perché mai debbano continuare a farlo. Certo, le piattaforme offrono accesso ad un ampio pubblico ma la visibilità è effimera e relegata alla singola piattaforma che ne controlla tutti gli aspetti: qualunque post che contenga un link esterno, ad esempio, viene riconosciuto e cassato dalle piattaforme, che non lo mostrano a nessuno.
Perché regalare tempo e risorse ad una piattaforma che non ti paga, ti banna a piacimento e ti impedisce pure di far conoscere la tua attività al di fuori della piattaforma? Che razza di contratto è?
Non è una questione banale. La realtà che tocchiamo con mano è che i creatori di contenuti sono sempre meno presenti sulle piattaforme dove non si monetizza, e quando lo fanno ci stanno sempre meno e producono roba sempre meno originale. Bisognerebbe essere dentro alle piattaforme per avere i dati, ma il turnover sembra sempre più veloce.
Anche i grandi produttori come giornali e TV hanno finora accettato di regalare contenuti alle piattaforme (si tratta in fondo di rimpacchettare contenuti che comunque preparano per i loro canali) in cambio di visibilità ed engagement. Secondo me non hanno fatto sempre benissimo i conti ma per le piattaforme questo significa avere il garantito il loro maggiore flusso di contenuti originali. Almeno fino ad ora.
La vicenda Twitter-NPR mette il luce l’arroganza con cui le piattaforme trattano anche i loro grandi produttori di contenuti, come se avessero loro il coltello dalla parte del manico, come se il veicolo e la macchina di visibilità potessero fare a meno del contenuto.Non è così, e NPR, andandosene da Twitter, lancia un messaggio chiaro: siamo noi che produciamo i contenuti e li mettiamo dove ci trattano bene. Senza un flusso di contenuti le piattaforme perdono soldi.
La carenza di contenuti veri, non di iscritti, è il vero incubo delle piattaforme.
Uno scenario realistico è che i produttori di contenuti si sveglino dall’ipnosi e facciano i conti, andando solo sulle piattaforme che convengono davvero. Nel caso di NPR, ad esempio, l’emittente sottolinea che Facebook e Instagram sono- per loro- veicoli molto più efficaci in termini di engagement e accesso ai contenuti sui loro canali.
La mia personale previsione è che Musk sarà costretto a chiedere scusa a NPR come un commesso che ha insultato un ottimo cliente e NPR alla fine tornerà su Twitter. Ma l’avvertimento c’è, ed è serio: per la prima volta un grande media se ne va portandosi dietro la palla.
Se vogliono sopravvivere, le piattaforme devono cambiare atteggiamento nei confronti di chi produce i contenuti originali e iniziare a dare loro soldi veri oppure qualcosa che non sia una visibilità di cartone dove loro controllano tutto e passano all’incasso.
Mangeresti un piatto di MUFFA?
Perché mangiamo la muffa del gorgonzola e buttiamo via quella del pane? Riuscirò a mangiare la muffa del formaggio SENZA il formaggio? Invece della carne sintetica mangeremo muffa? 🙂
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Il video è in collaborazione con DIPLE, il microscopio portatile e accessibile per smartphone e tablet che ho usato per tutte le riprese micro. Per saperne di più e per schede didattiche sul mondo micro e tutorial esclusivi in omaggio: https://www.rockscience.it/viaggiomicro
Storytelling interruptus: ecco perché i finali delle serie fanno sempre più schifo
Ho appena visto due serie diverse e potenzialmente ottime accomunate da un finale da buttare.
Godless (Netflix) è western del 2017 che ho visto solo ora. Girato molto bene (e io amo il western di qualità), trama intrigante, ambientazione realistica e sceneggiatura che hanno attirato la mia attenzione e Jeff Daniels che offre un’interpretazione notevole.
The Consultant (Amazon) non potevo non guardarlo considerata la mia occupazione (se sei idraulico e ti propongono la serie “The Plumber” che fai, non la guardi?), e l’high concept originale e attraente. Ambientazione contemporanea e ironica, bei dialoghi, inizio al fulmicotone e un Christoph Waltz sempre al top, anche se il personaggio sembra una versione riciclate dalle sue altre interpretazioni.
Due serie (corte) che ho divorato in pochi giorni ma che si sono entrambe disintegrate a livello di scrittura e stile nell’episodio finale.
In Godless un finale insensato con sparatoria irrealistica e senza senso. Un jumping the shark che poteva essere scritta dal cugino povero di Tarantino in forte sedazione seguito da un’infilata dolorosa di tutti i cliché che gli autori sembravano avere evitato fino a quel momento – compresa (spoiler) cavalcata di addio al tramonto. O all’alba, boh.
In The Consultant un finale tirato via, che non chiude, non spiega e prepara infantilmente ad una nuova, telefonata stagione come se la prima fosse solo un trailer.
I finali deludenti via, i mancati orgasmi da storytelling interruptus sono ormai un rischio costante della produzione di film e serie. Una ragione sta nel manico dello storytelling contemporaneo: il modello di business delle piattaforme che prediligono l’apertura rispetto alla chiusura,e forse anche nelle abitudini del pubblico. Nel mercato globale delle piattaforme ( che propongono anche cose davvero eccellenti) le produzioni più impegnative vengono scelte e finanziate in base soprattutto all’high concept -quello che in italiano chiameremmo il soggetto.
Se vuoi vendere la stessa storia in italia e in Qatar e rifarti delle spese devi infatti raccontare temi universali e avere un high concept molto forte e universale che parli ad un determinato segmento di pubblico a prescindere (il più possibile) da dove si trova. In buona parte della produzione contemporanea, la selezione darwiniana del click e del passaparola si opera sull’inizio delle storie, non sulla chiusura. Che a volte addirittura non c’è proprio, come succede con le serie (non poche) che non vengono rinnovate dopo la prima stagione.
Il risultato è una quantità di serie e film eccellenti sul piano dell’high concept e dello sviluppo iniziale ma dove ci si pone poco o nulla il problema del finale. Anche perché nella scrittura, almeno per come la vivo io, un buon finale è spesso la parte creativa più ardua. Puoi avere molte idee originali di storie e ambientazioni ma svilupparle e chiuderle in modo altrettanto originale è difficile.
Ci sono naturalmente notevoli eccezioni: serie come Breaking Bad, Better Call Saul, the Ozark e molte altre hanno chiusure ottime ma si tratta di prodotti di pura eccellenza e diretta da showrunners geniali e che impongono fortemente la loro visione e creano un rapporto forte con la audience. Quando guardi queste serie non sai come andrà a finire ma sei sicuro che gli autori hanno le idee chiare al riguardo.
Per molte altre, come per svariate forme di racconto, il rischio di storytelling interruptus è sempre dietro l’angolo
“L’ultima cosa che si scopre scrivendo un libro è come cominciare,” diceva Blaise Pascal. E’ chiaro che i produttori di oggi dissentono fortemente. Fregarsene degli spoiler e guardare subito l’ultimo episodio? Soluzione drastica ma risolutiva. Forse meglio della delusione di un finale squagliato.
Intanto un pedante ma gratuito reminder per chi di voi si trovi a fare comunicazione, anche solo per un talk o una presentazione: la tensione narrativa va mantenuta fino alla fine. Altrimenti è come mettersi a letto insieme, spogliarsi e poi restare a parlare del tempo.
Yogurt o Kefir? La parola al Biologo
Meglio Kefir o Yogurt? Come sono fatti e cosa contengono? Come facciamo a sapere se il nostro Kefir è davvero ricco di fermenti e di microorganismi?Nel nuovo video Rockscience vediamo il kefir al microscopio e scopriamo i microorganismi che lo producono.
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Cos’è un tumore?
Com’è fatto un tumore?
Nel mio ultimo video YouTube osserviamo veri tumori al microscopio imparando molte cose interessanti su come funzionano.
Come si sviluppa un tumore, come si riconoscono le cellule tumorali al microscopio, cosa sono le metastasi e come funzionano alcune terapie antitumorali innovative.
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Pensavo fosse Amore invece è solo un claim
La pace come pacchetto di comunicazione
Con l’invasione dell’Ucraina si è chiusa – almeno provvisoriamente- la fase in cui leader politici, giornalisti, opinionisti e agitatori del popolo potevano apertamente sostenere putin e la sua politica fino al punto di indossare- letteralmente- la sua maglietta.
Per i Telecomandati europei di putin il cheerleading alla luce del sole non sarebbe più socialmente e politicamente accettabile e risulterebbe controproducente, isolando chi lo pratica dai dibattiti che contano. Questo lo capiscono anche gli strateghi del cremlino con la testa quadrata, il polonio nella caffettiera e la manona insanguinata di putin poggiata sulla spalla.
E così vediamo da tempo i Telecomandati di tutta Europa adottare in blocco la nuova strategia: quella di aderire nominalmente al blocco anti-putin, così da non perdere trazione mediatica, lavorando allo stesso tempo di interdizione, erosione, sabotaggio per indebolire l’azione occidentale.
Confondere, dividere e indebolire: i soliti vecchi cardini su cui poggia la strategia di comunicazione del cremlino verso l’Occidente.
Alcune parole-chiave irradiate dagli spin doctors russi sono strumentali alla strategia degli ultimi mesi e popolano i discorsi dei Telecomandati. Una di esse è:”Pace”
Salvini, Conte, il neo-presidente della camera, i finti esperti dei talk show, Le Pen e i tanti, troppi megafoni di putin in occidente parlano tutti di “pace”. Lo fanno con formule adattate alle diverse realtà culturali geografiche, ma con messaggi sostanzialmente analoghi e prefabbricati.
Nell’accezione di costoro, “pace” non è intesa come logico e auspicabile obbiettivo di equilibrio e stabilità, di giustizia tra aggredito e aggressore e di difesa, bensì come forma di bieca arrendevolezza di fronte all’aggressore. Come miraggio astratto che livella e mette tutti sullo stesso piano. E’ la pace (con la minuscola) del bidello che ferma la rissa (“basta! Fate la pace!”) solo quando vede che il bullo della scuola le sta prendendo, inaspettatamente, dalla sua vittima.
Per un regime come quello russo, che ha iniziato una guerra ingiustificata, che saccheggia, uccide e deporta civili inermi, sembra controintuitivo e cinico spingere il concept di “Pace”. Ma ha un senso sul piano comunicativo.
Parlare genericamente di “pace” infatti vuol dire tutto e niente, e ha una connotazione emotiva che sposta l’asse dalla discussione razionale a quella di pancia, cosa che aiuta moltissimo l’obiettivo della propaganda russa che-ricordiamolo- non è convincere ma confondere.
Mi occupo per lavoro di comunicazione ed ecco come ragionerei se fossi uno spin-doctor russo con la testa quadrata e la caffettiera al polonio:
– Fare appello al valore della “Pace” significa automaticamente mettersi in una posizione di superiorità morale. Chi non vorrebbe la Pace? Poco importa che non si spieghi come: anche solo citare la pace aiuta a sostenere posizioni e a mettere gli altri in apparente svantaggio morale trasformandoli automaticamente in guerrafondai.
– Fare appello alla “pace” è un modo sottile per rilanciare e amplificare impunemente le minacce nucleari del cremlino e la prospettiva (improbabile) di una terza guerra mondiale. “Avrà anche torto ma facciamo la pace prima che quel pazzo ci distrugga tutti!” Questo è un altro pezzo della strategia di comunicazione di putin atta a impaurire, indebolire, e sfiancare l’opinione pubblica europea.
– Il tema della “pace” è perfetto per giustificare il vero “call to action” che viene richiesto ai Telecomandati: usare tutta la leva possibile per sabotare, indebolire e rallentare le misure occidentali, in primis l’invio di armi e aiuti militari all’Ucraina e le sanzioni alla russia. Le magliette indossate dai più famosi Telecomandati, ancora prima della guerra, parlavano non a caso di sanzioni: quello che più fa male a putin e che lo mette – oggi lo vediamo sempre più- in difficoltà enorme.
– A chi è talmente spaventato, vigliacco o menefreghista da dire: “lasciamo che l’Ucraina si arrangi!” l’ appello alla “pace” fornisce un’utile giustificazione morale. Non lo si fa per cattiveria o vigliaccheria, ma per la “pace” che -sottinteso- “è meglio anche per loro”! Poco importa se in questa “pace” la vittima verrebbe massacrata e l’Occidente perderebbe sul piano economico e geopolitico.
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Poco importa che quella dei Telecomandati sia una pace con la Z stampata sopra e creata a tavolino come parte di un pacchetto di comunicazione. Una specie di supercazzola con l’arcobaleno fatta per confondere. Una pace che dovrebbe placare la furia di un aggressore il quale ha lo scopo dichiarato di annientare l’aggredito e chiunque lo aiuti.
Alla luce degli sviluppi militari, poi, qualunque ipotesi di pace che non preveda il ritiro incondizionato della russia dai territori invasi sarebbe un successo per gli spin doctor russi con la testa quadrata. La russia ha infatti iniziato una guerra e la sta perdendo clamorosamente sul campo.
La formazione di un blocco occidentale relativamente compatto non era forse del tutto prevista all’inizio dagli strateghi russi, che non perdono occasione di dichiararsi delusi dalla mancanza di fedeltà da parte di paesi “amici” come l’italia dove hanno investito così tanto. In queste dichiarazioni si legge peraltro un classico messaggio mafioso rivolto ai Telecomandati: ricordate che abbiamo in mano le carte, chi sgarra lo sputtaniamo pubblicamente.
La strategia comunicativa del cremlino è elementare, brutale e senza fantasia, come molte cose che arrivano da quella dittatura. Ma funziona e soprattutto sembra ancora avere una certa capacità di adattamento, seppure grossolana.
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Figli di Piero
Ho lasciato passare qualche giorno per offrire un ricordo di Piero Angela più “tecnico” e possibilmente alla larga dall’agiografia che abbonda e che lui stesso, credo, avrebbe trovato eccessiva. La mia generazione (e, scopro, anche quella successiva) è cresciuta con le trasmissioni di Angela.
Chi fa il mio mestiere gli deve sicuramente tantissimo- non fosse altro che in termini di ispirazione. Siamo in qualche modo tutti figli o nipoti di Piero e il suo stile ha fortemente influenzato la divulgazione scientifica italiana.Più che celebrare la sua figura mi interessa tuttavia notare come l’approccio di Angela, e il suo stile, siano cambiati nel corso della sua lunga carriera di pari passo con l’evoluzione del panorama televisivo.
Poco si è detto ad esempio della spinta rivoluzionaria e innovativa che Angela aveva impresso con le sue prime trasmissioni, piene di novità stilistiche, tecniche e narrative.
Riguardando i programmi di Angela degli anni ’70 e fino ai primi anni ’80 non si sente odore di archivio ma si respira ancora oggi la freschezza che manca a gran parte della TV odierna. Il suo racconto in quegli anni era focalizzato sull’attualità e sulle frontiere più avanzate (magari meno consolidate) dei vari settori della ricerca e della tecnologia. Quello che gli anglosassoni chiamano il “cutting edge”.
L’approccio televisivo, poi, era innovativo e sperimentale, pensiamo ad esempio alla serie del viaggio nel corpo umano, con effetti speciali che oggi ci fanno ridere ma allora erano nuovissimi. Con lui che fisicamente entrava nella storia-altra cosa che da noi, all’epoca, non si era vista così spesso. Oppure la sua storica serie di indagine sulla parapsicologia, costruita sui canoni del giornalismo di inchiesta.
Il Piero Angela dei primi tempi è quello che più mi ha ispirato ed entusiasmato fin da ragazzino. Non per nostalgia ma perché in quegli anni la narrazione di Angela è stata decisamente rivoluzionaria sul piano stilistico e dei contenuti. Il sogno di raccontare la frontiera, il bleeding edge, mi è arrivato anche da lì, poi è rimasto appiccicato e me lo sono portato dietro fino ad oggi.
La mia sensazione è che con il tempo e il mutare del panorama televisivo e del pubblico di riferimento, la divulgazione di Angela (sempre eccellente) si sia concentrata su formati più tradizionali e su temi e argomenti più consolidati, dove ormai era il consenso scientifico era formato e i giochi erano fatti. Da un certo punto in poi (più o meno dalla fine degli anni ’90) suoi programmi sembrano puntare soprattutto ad “alfabetizzare” un pubblico generalista e digiuno di scienza, divulgando (benissimo) nozioni consolidate con un formato fisso e rassicurante, più che appassionare un pubblico giovane e “affamato”.
Obbiettivo buono e giusto, che lui stesso ha sempre dichiarato di voler ottenere, ma che forse ha tolto enfasi al racconto “cutting edge” e alla sperimentazione delle prime trasmissioni, dove si entrava (anche letteralmente, con gli effetti speciali) nella ricerca e nella meraviglia della scoperta.
Non è ovviamente una colpa. Nelle sue parole, anche recenti, Angela mostra una lucidità e una freschezza che molti giovani dovrebbero invidiare, e che gli stessi giovani apprezzano, ma non si può chiedere a un autore avanti negli anni, per quanto geniale, di mantenere la stessa spinta di sperimentazione e innovazione. Considerato anche un pubblico televisivo di riferimento che per ragioni demografiche è sempre più vecchio, mentre i giovani si rivolgono a canali differenti.
Casomai è mancata, da parte della TV italiana, la volontà di “mettere a sistema” Angela, di completare l’offerta divulgativa investendo seriamente su programmi nuovi che sfruttassero magari la sua scia, proponendo la stessa qualità e livello scientifico ma con formati diversi, con più enfasi sulle sfide e la scoperta in diretta, proprio come il primo Angela ci aveva abituato.
La BBC, ad esempio, ha un mostro sacro come Attenborough, praticamente coetaneo di Angela, ma questo non le ha impedito di sperimentare una miriade di nuovi formati divulgativi sfruttando anche il traino dei suoi documentari. Da noi questo non è accaduto, a parte qualche esperimento sul web, ed è un peccato.
La divulgazione, come tutto il panorama comunicativo, è o dovrebbe essere un ecosistema dove accanto ad un blockbuster generalista fatto benissimo come SuperQuark sarebbe utile proporre approfondimenti o spin-off con formati diversi, magari rivolti ad altri target.
Con Angela purtroppo non ho mai lavorato, anche se ho avuto l’onore di essere intervistato nelle sue trasmissioni. Ho tuttavia la fortuna di conoscere bene alcuni suoi stretti collaboratori, cosa che mi permette di notare un aspetto importante e poco pubblicizzato del suo metodo: la qualità dei giornalisti, esperti e autori di cui si è sempre avvalso.
Angela notoriamente lavorava con un gruppo relativamente ristretto di persone che cambiava di rado. Competenza, sobrietà e serietà nel lavoro sono caratteristiche comuni a tutti i collaboratori di Angela che conosco.
Magari mi sbaglio, ma non credo si potesse collaborare a lungo con Angela- da giornalisti o esperti- e contemporaneamente fare i pazzi sui social straparlando della qualunque. La capacità di circondarsi di persone valide e affidabili e tenersele strette (e vale anche per gli scienziati che intervistava) credo sia stata una costante e un motivo di successo nella carriera di Angela. Il fatto poi di avere creato una squadra duratura è una cosa preziosa che purtroppo accade raramente nel nostro mestiere.
Angela, un giornalista senza formazione scientifica, è diventato il primo e più importante divulgatore italiano. Confermando l’idea che l’esperienza diretta in ricerca può servire (a me ad esempio serve moltissimo) ma non è obbligatoria se ci sono talento, capacità giornalistiche, curiosità, sano pensiero scettico e un atteggiamento realistico, rispettoso ma senza complessi di inferiorità o totem nei confronti della ricerca e di chi la pratica.
Dato che era molto spiritoso, Angela si sarebbe sicuramente divertito leggendo i commenti di alcuni scienziati che sui social piangono (giustamente) la perdita del più grande divulgatore italiano e solo qualche post prima dichiaravano che gli unici veri divulgatori devono essere per forza scienziati. La sottostante dissociazione cognitiva sarebbe stata certamente motivo di ilarità per il Piero nazionale.
Ci ha lasciato una grande mente, lucida e coerente fino alla fine. In qualche modo siamo tutti figli o nipoti di Piero. Ma non siamo del tutto orfani. Abbiamo tanti ottimi divulgatori che lavorano con passione, competenza ed esperienza. Diamo loro spazio, lasciamoli liberi di sperimentare a loro volta e offriamo una possibilità di cercare un nuovo pubblico e nuovi formati. Sarà il migliore modo per ricordare Angela e portare avanti la sua eredità.
©Sergio Pistoi 2022
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