Le mie Serie TV su Radio 3 Scienza
Qual’è la serie TV più bella che avete visto nel 2023? E la più deludente?
Per chiudere bene l’anno ho fatto una chiacchierata con Licia Troisi e un gruppo di 18enni su un tema che da sempre mi appassiona: la scienza (e non) nelle serie TV.
Potete riascoltarlo su Radio 3 Scienza a questo link.
Studio o lavoro? Materie umanistiche o materie scientifiche? Letture preferite? Podcast più ascoltati? Come sarà il futuro? Sono alcune delle domande che Radio3Scienza rivolge a ragazzi e ragazze, diciottenni o poco più, nel corso dell’ultima settimana di programmazione del 2023. Il tema della puntata di Santo Stefano sono i prodotti multimediali: film, serie e podcast preferiti dai giovani. Clonazione, biohacking, analisi del DNA: come mai nei consumi culturali dei ragazzi la genetica sembra spuntare da ogni parte? Rispondono Lucia Ruccia, studentessa del liceo linguistico Edoardo Amaldi di Roma, e Sergio Pistoi, giornalista scientifico e biologo molecolare. Al microfono una conduttrice d’eccezione: l’astrofisica e scrittrice Licia Troisi
Buon inizio anno, grazie a chi mi ha seguito e sostenuto anche nel 2023, e un caro saluto a tutti!
La Flowchart di Natale
Buone Feste e spero di fare cosa gradita allegando questo utile diagramma comportamentale basato su anni di osservazioni prefestive sul campo.
Se tra i propositi del nuovo anno hai messo delle attività di comunicazione dai un’occhiata alla mia rinnovata boutique agency Greedybrain e a quello che possiamo fare in Italiano e Inglese.
Ricorda inoltre che se vuoi fare in regalo davvero intelligente qui trovi il mio libro.
Un caro saluto e se non ci rivediamo prima di Natale tanti auguri …
Sergio
Vattimo e l’arte perduta di litigare
Gianni Vattimo è legato ad uno dei momenti più divertenti e formativi a cui abbia mai assistito e che ancora rimpiango. Negli anni ’90 ebbi infatti la fortuna di assistere al Teatro Colosseo di Torino ad un mitico dibattito tra lui e il fisico Tullio Regge dove già il titolo: Scienza e filosofia: dialogo o scontro?” prometteva scintille.
Era nota infatti l’allergia di Regge nei confronti degli epistemiologi e probabilmente dei filosofi in generale (una sindrome immunologica di cui credo di soffrire anche io) e la lingua affilata di entrambi gli oratori, oltre che la loro enorme cultura, prospettava un incontro al fulmicotone.
Non fummo delusi. Sul tema i due avevano posizioni chiaramente antitetiche che difesero strenuamente. Ma erano anche amici e intellettuali di intelligenza ben oltre la media e quindi fu una serie ineguagliabile di battute, frecciate in punta di Fisica e Filosofia, racconti e semi-sfottò dove Regge – da scienziato- sosteneva la sostanziale inutilità scientifica dell’interlocutore e Vattimo lo perculava tacciandolo di gretta ignoranza.
In un altro contesto, con altre persone, sarebbe stato un bagno di sangue perchè quello che si dicevano ad una mente meno aperta e intelligente poteva anche risultare offensivo. Ma loro si divertivano, e noi con loro, e si imparava perché anche la minima battuta era un concentrato di ragionamenti e nozioni che i due spiegavano e raccontavano, anche se nel frattempo erano intenti a punzecchiarsi a sangue. Mi sembra di ricordare, ma non vorrei sbagliare, che fossero moderati dal mitico Piero Bianucci che naturalmente, buttava benzina in quel magico fuoco.
Si potevano facilmente immaginare i due a discutere per ore in una piola torinese, oppure al telefono come pare in effetti facessero d’abitudine.
Per me che iniziavo il lavoro di giornalista scientifico vedere quel dibattito fu un esempio particolarmente illuminante. Si potevano mettere insieme – in modo per nulla paludato- persone che letteralmente litigavano sul palco ma con stile e intelligenza, e ne scaturiva qualcosa di divertente e istruttivo per il pubblico, cosa che avevo sempre creduto ma che non avevo mai ancora visto praticare a quel livello, almeno da noi.
Quell’incontro era una forma di dissing di alto livello. Partiva dai presupposti del talk show ma funzionava al contrario, trasformando la polemica in crescita e non il ragionamento in caciara. Anche chi come me tifava spudoratamente per uno dei due (e avete capito chi era) poteva apprezzare la finezza di ragionamento dell’altro, riderne e allo stesso tempo imparare qualcosa.
E’ un esempio che purtroppo non ho più visto applicare negli anni successivi. Non tanto e non solo per carenza di oratori all’altezza (che volendo si troverebbero, anche se quei due erano al top) ma perché respiriamo tutti un’atmosfera decisamente diversa e più avvelenata. Le piattaforme, la propaganda, la polarizzazione e le bolle social rendono sempre più difficile litigare in modo divertente e costruttivo.
Ve li immaginate oggi due accademici che si danno reciprocamente dell’inutile e dell’ignorante, tirandoci dentro tutta la categoria dei loro colleghi? Tarantino potrebbe piazzare una telecamera e girarci una scena splatter. Forse perfino Regge e Vattimo se oggi discutessero su Twitter si manderebbero a cagare e si bannerebbero a vicenda non parlandosi mai più.
Perfino nella vita reale sembra che abbiamo smesso di litigare bene. C’è il terrore palpabile verso il confronto aspro ma intelligente di visioni che rischia di rovinare una serata, invece di arricchirla.
La battuta polemica, l’esca di un sano dissing viene presa come offesa personale. L’ambiente si gela per la paura che tutto degeneri in un attimo. Il livello di discussione va tenuto sempre entro confini retorici che non scontentino nessuno, entro paletti emotivi streti, insopportabili e incompatibili con la crescita intelligente, che da sempre passa anche da qualche metaforico, amichevole e non malevolo graffio.
Questa forma di terrore, non detto e non scritto, nei confronti del dissing sembra contagiare sempre più anche il nostro lavoro che invece dovrebbe anche prevedere lo scontro utile e ben fatto.
Contagia chi organizza dibattiti scientifici e festivalieri, dove chissà perché si pensa che la polemica, ancorché interessante e civile, non abbia posto. I membri di un panel sono quasi sempre scelti per raccontare pezzi diversi della stessa storia, non per discutere tra loro.
Le poche volte che, invitato a parlare, ho garbatamente offerto un punto di vista vagamente contrastante con qualcuno del mio panel, oppure sono intervenuto in qualche dibattito online, ho percepito le occhiate riprovevoli e terrorizzate dei miei colleghi e ricevuto messaggi del tipo “lascia stare, che poi sembra che non andiamo d’accordo neanche tra noi e il pubblico si confonde”.
Si confonde? Ma se togliamo la polemica ben fatta, se disabituiamo la gente a litigare bene, a difendere e confrontare le idee, rimane solo l’alternativa tra lo sproloquio autoreferenziale e la polemica vuota e velenosa dei talk show. Quello sì che confonde. Ed è quello che sta succedendo.
Insomma, non ho mai seguito particolarmente Vattimo e come avete capito riguardo alla filosofia la penso come il compianto Regge. Ma oggi pagherei oro per rivedere due persone così litigare bene, con tutta la competenza, l’ironia e il tempo che occorre per tirarci fuori qualcosa di utile.
Regge all’aldilà non ci credeva, Vattimo non l’ho capito se ci credeva o no. Ma se c’è qualcosa, suppongo che ora che anche Vattimo se n’è andato, saranno già lì a insultarsi.
Arriva il Pangenoma: ecco cosa cambia
La mappa del pangenoma umano pubblicata in questi giorni è l’ultimo e forse definitivo progetto per catalogare le diverse varianti genetiche umane ed è destinata a diventare il nuovo riferimento per la genomica.
Sapevamo fin dall’inizio che la mappa del genoma era insufficiente a descrivere la variabilità genetica umana, come ho discusso ampiamente nei miei libri sul DNA. Si tratta infatti di una sequenza di riferimento costruita a partire da un pugno di individui che non rappresenta affatto la diversità genetica della specie.
Non che finora le differenze individuali siano state ignorate, così come i limiti della sequenza di riferimento. Possiamo dire con buona approssimazione che la genomica contemporanea si basa sullo studio delle differenze, alimentata anche dal numero sempre crescente di genomi individuali presenti nei database e dai progetti di ricerca sulla variabilità umana che erano già iniziati all’alba della genomica; alcuni li ho vissuti in prima persona e raccontati.
Di molte varianti conosciamo già la frequenza nelle diverse popolazioni e quasi tutte le applicazioni biomediche, nonché i siti di home genomics, tengono conto dell’esistenza di queste differenze. Si è fatto tuttavia finora a spizzichi e bocconi, tenendo conto di una miriade di sequenze genomiche da fonti diverse, con tecniche e qualità diverse e soprattutto senza un vero e proprio riferimento con cui confrontare i dati.
Un po’ come se tutti i geometri del mondo prendessero le misure in modo piuttosto preciso usando i loro strumenti e anche con un discreto scambio di dati, ma senza avere un metro di riferimento universale a cui rapportare i dati.
La mappa pangenomica è importante perché ci aiuta a catalogare e comprendere meglio la diversità genetica umana e a identificare varianti genetiche associate a malattie e ad altre caratteristiche umane.
L’applicazione più pratica e immediata che forse non tutti colgono riguarda invece la qualità delle analisi genetiche che si fanno ormai a milioni, quotidianamente e in tutto il mondo. Per capire, devo spiegare brevemente cosa succede quando si decodifica un DNA umano.
Quando si legge un genoma umano, non si può avere una sequenza ininterrotta delle lettere che lo compongono: con le tecniche attuali si possono leggere al massimo pezzi di qualche decina di migliaia di lettere (chiamate long reads) o più spesso di qualche centinaia di lettere (short reads). Un genoma umano diploide è però di 6 miliardi di lettere. Si tratta quindi di leggere tantissimi frammenti del DNA e poi metterli uno dietro l’altro in modo che siano una rappresentazione fedele di quel particolare genoma.
Questo assemblaggio (genome assembly) è un po’ come unire i pezzi di un puzzle, considerato però che qui i pezzi di DNA possono sovrapporsi, il che rende ancora più difficile l’opera. Ogni volta che si legge un genoma (il mio, ad esempio, è stato letto, e forse anche il vostro), gli algoritmi di assemblaggio mettono i vari pezzi in ordine usando come riferimento la mappa (di riferimento, appunto) del genoma umano. La mappa del genoma è come la foto del puzzle completo stampato sulla scatola e su quella si lavora per mettere insieme i pezzi.
Tuttavia, come abbiamo detto, la mappa di riferimento attuale non rappresenta la variabilità umana ma solo il genoma di pochi individui. Il mio DNA e il vostro contengono sicuramente alcune sequenze in più o in meno rispetto a quella mappa, così come sequenze orientate in modo diverso o spostate altrove. Ognuno di noi possiede pezzi del puzzle che nella foto di riferimento mancano oppure sono sistemati diversamente.
Per questo, ogni volta che si legge un genoma, gli algoritmi di genome assembly devono fare i salti mortali per dargli un senso e utilizzare i dati disponibili e la statistica per riempire in modo convincente i pezzi che non combaciano. Il risultato è spesso troppo incerto per le applicazioni di precisione. Pensiamo ad esempio alla diagnosi di varianti legate ai tumori o alla previsione di malattie. Inoltre, alcune popolazioni sono sottorappresentate nelle statistiche, complicando ulteriormente le cose.
Una mappa pangenomica è un passo importante per superare questi limiti. Si tratta infatti di un riferimento aggiornato, e più rappresentativo con cui gli algoritmi confronteranno ciascuna nuova lettura, trovando molti meno pezzi discrepanti. Sistemare tutto ciò in termini computazionali sarà forse un piccolo incubo, ma per questo abbiamo ottimi programmatori e potenze di calcolo sempre migliori.
NPR lascia Twitter. L’incubo delle piattaforme si avvera?
Una delle più grandi e prestigiose media organization- con la quale ho avuto anche il piacere di collaborare- smetterà di postare nuovi contenuti su Twitter. Il casus belli è il label (governement-funded media) che Musk ha arbitrariamente affibbiato a NPR e che l’emittente rifiuta categoricamente. Ma non è sul motivo dello scontro che mi interessa riflettere.
Il punto è che NPR è forse il primo grande produttore di contenuti a mettere le piattaforme social di fronte al loro vero incubo: rimanere senza contenuti. Cosa che si sta silenziosamente realizzando, a prescindere dalla mossa di NPR.
Le piattaforme non diventano miliardarie con le foto di quello che hai preparato per cena o con le lamentele su come di sei svegliato stamattina. Alla base del modello di business delle piattaforme social c’è la produzione massiccia e soprattutto GRATUITA di contenuti da parte di una minoranza di profili.
Senza una quota sufficiente di contenuti davvero engaging, che facciano discutere, una piattaforma social collassa su se stessa come un cartone vuoto. Le piattaforme non sono in grado di produrre autonomamente contenuti. O meglio lo sarebbero, ma costerebbe troppo e il modello collasserebbe comunque.
Ogni giorno, miliardi di utenti scrivono commenti, leggono e discutono contenuti prodotti da pochi milioni di “creatori di contenuti” che li postano gratis sui social.
A monetizzare però è la piattaforma, non chi ha prodotto il contenuto.
Questo modello ha funzionato benone fino a poco tempo fa ma mostra lentamente le sue crepe, sotto forma di una carenza di contenuti originali che è sempre più evidente.
Dopo anni di tempo regalati alle piattaforme, sempre più creatori di contenuti si chiedono perché mai debbano continuare a farlo. Certo, le piattaforme offrono accesso ad un ampio pubblico ma la visibilità è effimera e relegata alla singola piattaforma che ne controlla tutti gli aspetti: qualunque post che contenga un link esterno, ad esempio, viene riconosciuto e cassato dalle piattaforme, che non lo mostrano a nessuno.
Perché regalare tempo e risorse ad una piattaforma che non ti paga, ti banna a piacimento e ti impedisce pure di far conoscere la tua attività al di fuori della piattaforma? Che razza di contratto è?
Non è una questione banale. La realtà che tocchiamo con mano è che i creatori di contenuti sono sempre meno presenti sulle piattaforme dove non si monetizza, e quando lo fanno ci stanno sempre meno e producono roba sempre meno originale. Bisognerebbe essere dentro alle piattaforme per avere i dati, ma il turnover sembra sempre più veloce.
Anche i grandi produttori come giornali e TV hanno finora accettato di regalare contenuti alle piattaforme (si tratta in fondo di rimpacchettare contenuti che comunque preparano per i loro canali) in cambio di visibilità ed engagement. Secondo me non hanno fatto sempre benissimo i conti ma per le piattaforme questo significa avere il garantito il loro maggiore flusso di contenuti originali. Almeno fino ad ora.
La vicenda Twitter-NPR mette il luce l’arroganza con cui le piattaforme trattano anche i loro grandi produttori di contenuti, come se avessero loro il coltello dalla parte del manico, come se il veicolo e la macchina di visibilità potessero fare a meno del contenuto.Non è così, e NPR, andandosene da Twitter, lancia un messaggio chiaro: siamo noi che produciamo i contenuti e li mettiamo dove ci trattano bene. Senza un flusso di contenuti le piattaforme perdono soldi.
La carenza di contenuti veri, non di iscritti, è il vero incubo delle piattaforme.
Uno scenario realistico è che i produttori di contenuti si sveglino dall’ipnosi e facciano i conti, andando solo sulle piattaforme che convengono davvero. Nel caso di NPR, ad esempio, l’emittente sottolinea che Facebook e Instagram sono- per loro- veicoli molto più efficaci in termini di engagement e accesso ai contenuti sui loro canali.
La mia personale previsione è che Musk sarà costretto a chiedere scusa a NPR come un commesso che ha insultato un ottimo cliente e NPR alla fine tornerà su Twitter. Ma l’avvertimento c’è, ed è serio: per la prima volta un grande media se ne va portandosi dietro la palla.
Se vogliono sopravvivere, le piattaforme devono cambiare atteggiamento nei confronti di chi produce i contenuti originali e iniziare a dare loro soldi veri oppure qualcosa che non sia una visibilità di cartone dove loro controllano tutto e passano all’incasso.
Mangeresti un piatto di MUFFA?
Perché mangiamo la muffa del gorgonzola e buttiamo via quella del pane? Riuscirò a mangiare la muffa del formaggio SENZA il formaggio? Invece della carne sintetica mangeremo muffa? 🙂
Guarda il mio ultimo video in collaborazione con DIPLE!
Il video è in collaborazione con DIPLE, il microscopio portatile e accessibile per smartphone e tablet che ho usato per tutte le riprese micro. Per saperne di più e per schede didattiche sul mondo micro e tutorial esclusivi in omaggio: https://www.rockscience.it/viaggiomicro
Storytelling interruptus: ecco perché i finali delle serie fanno sempre più schifo
Ho appena visto due serie diverse e potenzialmente ottime accomunate da un finale da buttare.
Godless (Netflix) è western del 2017 che ho visto solo ora. Girato molto bene (e io amo il western di qualità), trama intrigante, ambientazione realistica e sceneggiatura che hanno attirato la mia attenzione e Jeff Daniels che offre un’interpretazione notevole.
The Consultant (Amazon) non potevo non guardarlo considerata la mia occupazione (se sei idraulico e ti propongono la serie “The Plumber” che fai, non la guardi?), e l’high concept originale e attraente. Ambientazione contemporanea e ironica, bei dialoghi, inizio al fulmicotone e un Christoph Waltz sempre al top, anche se il personaggio sembra una versione riciclate dalle sue altre interpretazioni.
Due serie (corte) che ho divorato in pochi giorni ma che si sono entrambe disintegrate a livello di scrittura e stile nell’episodio finale.
In Godless un finale insensato con sparatoria irrealistica e senza senso. Un jumping the shark che poteva essere scritta dal cugino povero di Tarantino in forte sedazione seguito da un’infilata dolorosa di tutti i cliché che gli autori sembravano avere evitato fino a quel momento – compresa (spoiler) cavalcata di addio al tramonto. O all’alba, boh.
In The Consultant un finale tirato via, che non chiude, non spiega e prepara infantilmente ad una nuova, telefonata stagione come se la prima fosse solo un trailer.
I finali deludenti via, i mancati orgasmi da storytelling interruptus sono ormai un rischio costante della produzione di film e serie. Una ragione sta nel manico dello storytelling contemporaneo: il modello di business delle piattaforme che prediligono l’apertura rispetto alla chiusura,e forse anche nelle abitudini del pubblico. Nel mercato globale delle piattaforme ( che propongono anche cose davvero eccellenti) le produzioni più impegnative vengono scelte e finanziate in base soprattutto all’high concept -quello che in italiano chiameremmo il soggetto.
Se vuoi vendere la stessa storia in italia e in Qatar e rifarti delle spese devi infatti raccontare temi universali e avere un high concept molto forte e universale che parli ad un determinato segmento di pubblico a prescindere (il più possibile) da dove si trova. In buona parte della produzione contemporanea, la selezione darwiniana del click e del passaparola si opera sull’inizio delle storie, non sulla chiusura. Che a volte addirittura non c’è proprio, come succede con le serie (non poche) che non vengono rinnovate dopo la prima stagione.
Il risultato è una quantità di serie e film eccellenti sul piano dell’high concept e dello sviluppo iniziale ma dove ci si pone poco o nulla il problema del finale. Anche perché nella scrittura, almeno per come la vivo io, un buon finale è spesso la parte creativa più ardua. Puoi avere molte idee originali di storie e ambientazioni ma svilupparle e chiuderle in modo altrettanto originale è difficile.
Ci sono naturalmente notevoli eccezioni: serie come Breaking Bad, Better Call Saul, the Ozark e molte altre hanno chiusure ottime ma si tratta di prodotti di pura eccellenza e diretta da showrunners geniali e che impongono fortemente la loro visione e creano un rapporto forte con la audience. Quando guardi queste serie non sai come andrà a finire ma sei sicuro che gli autori hanno le idee chiare al riguardo.
Per molte altre, come per svariate forme di racconto, il rischio di storytelling interruptus è sempre dietro l’angolo
“L’ultima cosa che si scopre scrivendo un libro è come cominciare,” diceva Blaise Pascal. E’ chiaro che i produttori di oggi dissentono fortemente. Fregarsene degli spoiler e guardare subito l’ultimo episodio? Soluzione drastica ma risolutiva. Forse meglio della delusione di un finale squagliato.
Intanto un pedante ma gratuito reminder per chi di voi si trovi a fare comunicazione, anche solo per un talk o una presentazione: la tensione narrativa va mantenuta fino alla fine. Altrimenti è come mettersi a letto insieme, spogliarsi e poi restare a parlare del tempo.
Yogurt o Kefir? La parola al Biologo
Meglio Kefir o Yogurt? Come sono fatti e cosa contengono? Come facciamo a sapere se il nostro Kefir è davvero ricco di fermenti e di microorganismi?Nel nuovo video Rockscience vediamo il kefir al microscopio e scopriamo i microorganismi che lo producono.
Il video è in collaborazione con DIPLE, il microscopio portatile e accessibile per smartphone e tablet che ho usato per tutte le riprese micro. Per saperne di più e per schede didattiche sul mondo micro e tutorial esclusivi in omaggio: https://www.rockscience.it/viaggiomicro
Ti piace approfondire? Guarda tutti i video della serie Viaggio Micro
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