Quindici secondi di notorietà
In the future, everyone will be world-famous for 15 minutes.
Andy Wharol
Il vecchio Andy aveva ragione. Grazie all’attento monitoraggio del mio Senior News Researcher ho appreso che il blog è stato citato su TG3 Neapolis. Ecco perchè quel giorno ho avuto tanti visitatori. E io che pensavo fosse merito del mio post…
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Ovvietà senza fili
Quella nella foto è la macchina che ho affittato. Il motel nello sfondo è quello dove mi sono fermato. Williamstown, è un posto sperduto nella campagna del Massachusetts; sarebbero letteralmente quattro case, ma a dominare il villaggio c’è un bellissimo college, che attira migliaia di studenti ogni anno e vivacizza la vita culturale (in questi giorni c’è un piccolo festival cinematografico).
A quattro chilometri da qui c’è North Adams, una ex città industriale che fino a qualche anno fa era destinata alla rovina. Finchè le autorità decisero di riconvertire la vecchia struttura industriale in una fabbrica di cultura.
La struttura più grande, salvata dalla rovina, ospita oggi il MassMOCA, un interessante museo di arte contemporanea, mentre altre fabbriche sono diventati atelier dove gli artisti producono e vendono le loro opere.
Attraversando la lunga strada che arriva dalla costa, ogni tanto si incrociano minuscoli paesi di campagna, di quelli che da noi sarebbero popolati solo da simpatici vecchietti, e invece pullulano di ragazzi. Altri college, altri centri di studio e ricerca che sostengono l’economia di intere regioni, salvandole probabilmente dallo spopolamento.
Non posso fare a meno di fare un triste parallelo con la “cultura made in Italy”, che ci piace tanto sbandierare, il deus ex machina che nei discorsi dei politici arriverà a salvare la nostra economia, ma che nessuno sembra in grado di capitalizzare davvero.
E allora mi metto a sognare, e sogno meravigliosi, piccoli centri del sud, della Toscana, dove l’economia della conoscenza diventa una realtà tangibile, con scuole e centri in grado di sostenere un’economia locale, e non solo spremerne le risorse.
Ma lasciamo perdere i sogni e passiamo all’argomento più terra-terra su cui avevo deciso di scrivere questo post (e il titolo). Come ho detto, mi trovo in uno sperduto motel in una quasi sperduta provincia di campagna. Eppure riesco a collegarmi ad internet grazie ad una rete wireless, per poter chiamare a casa con Skype, programmare il resto del viaggio e … scrivere questo post.
In questi giorni – per chiare questioni di budget- ho sostato in motel e b&b che sembravano la copia di quello di Psycho. Eppure il wireless, gratuito, o complimentary, come si dice qui, c’era sempre.
Un simpatico gerente mi ha spiegato che ormai un collegamento wi-fi è una amenity, un servizio, indispensabile per la clientela.” It’s obvious”, è stato il suo verdetto,
Se volete pagare per il collegamento, in quasi ogni angolo del States avete l’accesso ad un hot spot; se però vi fermate davanti ad una biblioteca, in un parco o in un luogo di interesse pubblico è probabile che potrete accedere gratis.
Riparte inevitabilmente il sogno, stavolta quello di un Italia dove internet senza fili diventi finalmente una ovvietà, come in questa provincia del nord America, e non un segnale da cercare con il lanternino (e chi l’ha provato sa che parlo anche di alberghi in grandi città). O da pagare a caro prezzo con l’UMTS.
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La sindrome del Nobel
Cosa farei se vincessi il Nobel? (si, si, ridete…). No, sul serio, cosa farei?
Prima che possiate pensare ad un mio delirio di onnipotenza, premetto che questa è la domanda che mi ronzava per la testa quando, più o meno tre anni fa, la Fondazione Nobel mi invitò a partecipare come giornalista all’incontro annuale dei premi Nobel (sì, avete capito bene, esiste una cosa del genere) nell’amena e teutonica località di Lindau. Io ne parlo così, ma sappiate che si tratta di un appuntamento ormai storico, che si ripete in gran pompa dal 1951. Un’altra occasione ghiotta che non mi feci sfuggire.
Perchè vi parlo di questo vecchio viaggio? Perchè Lindau, il suo bel lago e la sua sfliza di Nobel mi sono tornati in mente in questi giorni in cui si parla della macroscopica gaffe del Nobel James Watson (sì, quello del DNA).
Per chi non lo sapesse, l’arzillo ottuagenario, peraltro abituato alle picconate mediatiche, stavolta l’ha fatta grossa, tirando in ballo le ( non dimostrate) differenze genetiche di intelligenza fra bianchi e neri.Chi ha avuto tempo e voglia di seguire la vicenda sa come è andata a finire: critiche a valanga, sospensioni dall’incarico accademico, fuga precipitosa del nostro dal tour letterario negli UK, e tutto quello che si può immaginare quando, a torto o a ragione, si va a mettere il naso nella political correcteness.
Il mondo si ribella a quella che considera un’affermazione socialmente pericolosa e politicamente scorretta. Per non aprire un altro lungo capitolo, lasciamo perdere se l’affermazione di Watson sia scientificamente plausibile o meno. Con buona approssimazione, sappiamo che quello che il Nobel ha detto è scientificamente tutto da dimostrare.
Il fatto importante, che molti commentatori dimenticano, è che Watson è in buona compagnia: esiste una lunga lista di Nobel che si sono prodotti in uscite altrettanto infondate (se non clamorosamente false) e socialmente pericolose. C’e il Nobel per cui la vitamina C cura il cancro (Pauling), ce n’è un altro (Mullis) che ha negato il ruolo del virus HIV nell’AIDS.
Curiosamente, nessuna di queste uscite ha mai generato tanta indignazione pubblica quanto quella di Watson. Ne deduco che se invece di prendersela con bianchi e neri, il nostro avesse sparato a zero sulla teoria dell’evoluzione, o avesse detto che l’influenza aviaria è causata da un baccello spaziale, nessuno lo avrebbe sospeso dall’incarico, come è successo.
Eppure, in tempi recenti, i danni sociali peggiori sono arrivati proprio da affermazioni politicamente corrette ma clamorosamente errate: le teorie bislacche del Nobel Mullis, ad esempio, hanno contribuito indirettamente al disastro di un paese come il Sudafrica.
IL fatto è che le sparate dei Nobel sono note, tanto che oltremanica qualcuno si è chiesto se esista la “Sindrome del Nobel“, una strana malattia legata al conferimento del prestigioso premio. La sindrome consiste nella trasformazione di valentissimi e prudenti scienziati in tuttologi sparacazzate (questo sono parole mie, non del Daily Telegrph).
E rieccomi a Lindau, a vagare fra cene e meeting rooms affollate di premi Nobel. Ve lo racconto perchè è li che ho capito non solo che la Sindrome del Nobel esiste veramente, ma anche perchè si scatena. Sì, perchè ho visto giornalisti assiepati attorno ad un Nobel per la chimica a fare domande sul futuro dell’economia globale. Ho visto premi Nobel per la medicina pontificare sul riscaldamento globale, e Nobel per la fisica pontificare sulla malaria.
E’ difficile immaginare cosa si scateni nella testa di un bravissimo scienziato che d’un tratto si trova proiettato sulla scena mondiale, e a cui viene chiesto di pronunciarsi su tutto.
Cosa farei se capitasse a me? Direi onestamente ai giornalisti, al pubblico, alle scolaresche speranzose che non ne so un tubo? Oppure obbedirei alla responsabilità di dire comunque qualcosa, per non deludere le aspettative del pubblico nei confronti della Scienza? Di certo, la Sindrome del Nobel sarebbe sempre in agguato. Mi chiedo se fra i benefit del Nobel c’è anche un corso accelerato in comunicazione pubblica. Se non c’è, andrebbe introdotto.
In attesa di cambiare i Nobel, l’unico rimedio alla sindrome è forse quella che suggerisce il Telegraph: perchè noi giornalisti non la smettiamo di dare retta ai Nobel quando escono dal seminato, sconfinando in terreni che non possono conoscere?
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Cristalli viventi e occhi fasulli
Per un appassionato di fantascienza come me, l’occasione era ghiotta e mi ci sono tuffato.
Qualche mese fa una piccola casa editrice americana mi ha proposto di scrivere due essays: l’idea era di rivedere sotto un taglio scientifico, brillante ma autorevole, due pilastri della fantascienza come Michael Crichton e la saga di Dune.
Da Andromeda (il primo libro di Crichton, da cui fu tratto un film cult degli anni ’70, dove si racconta dell’invasione di una stranissimo cristallo vivente dallo spazio) ho preso ispirazione per parlare di quanto sia sfumata la definizione scientifica di “vita”, scoprendo perfino che i “cristalli viventi” non esistono soltanto nella mente degli scrittori, ma sono una possibilità prevista da autorevoli studiosi.
E su Dune? Cosa mai si può scrivere su Dune che non sia stato già scritto? Alla fine ho pensato ai Tleilaxu eyes, gli occhi bionici che fanno capolino ogni tanto nella saga di Herbert.
Era un bel pretesto per parlare delle protesi retiniche e degli occhi artificiali, su cui tanti laboratori oggi stanno lavorando. Ne è venuto fuori, più che un saggio, un racconto di fantascienza ambientato alla fine di questo secolo, che ripercorre la storia dell’invenzione partendo dalle prime pioneristiche scoperte (quelle vere, di oggi),per poi raccontare i progressi (inventati, ma plausibili) della tecnologia. La storia a ritroso di un invenzione che ancora non c’è.
Non ero ovviamente l’unico ad avere idee così malsane, e così ne è venuta fuori un’antologia, anzi due, appena pubblicate negli States: The Science of Michael Crichton e The Science of Dune (Benbella Books). Ciascuna raccoglie una decina di essays scritti da scienziati, giornalisti o scrittori di SF. Per chi non resiste dalla voglia di leggerle, le trovate anche su Amazon. Il bello dei blog è che le marchette te le puoi fare da solo.
Galeotta fu la Radio
Da un paio di giorni circola una mail/iniziativa nata da Giovanni Romeo, genetista dell’Università di Bologna, e da altri due ricercatori, che pubblico qui.
La storia all’origine della mail è interessante.
Il professore bolognese è stato infatti protagonista, suo malgrado di un piccolo, quanto istruttivo “incidente” mediatico.
Mercoledì scorso (10 ottobre) Romeo telefona in diretta a Prima Pagina (Radio 3), programma condotto dal navigatissimo giornalista Marcello Sorgi ponendo la questione dei tagli alla ricerca e di come la stampa italiana tratta il problema (qui trovate l’audio della puntata 10 ottobre, la parte che ci interessa è verso la fine) .
“Lei cosa ne pensa, Dr. Sorgi?“, chiede Romeo.
Per tutta risposta, il giornalista si lancia in un lungo monologo sulla ricerca italiana, ammettendo di non conoscere cifre e dettagli ma sentenziando: ” Ci sono troppi ricercatori in Italia“. Poi apre una metafora dolciaria piuttosto confusa su torte da spartire, evidentemente un tentativo maldestro di criticare (giustamente) i finanziamenti a pioggia.
Una persona meglio informata avrebbe lasciato perdere l’ esubero di ricercatori, visto che statisticamente ne abbiamo meno in proporzione della media europea. Semmai avrebbe risposto ( in metà del tempo) che il problema non è tanto quello della carenza di finanziamenti ma il fatto che non esista nel nostro Paese un sistema in grado di distribuire i finanziamenti in base al merito, tagliando i tanti rami secchi. Sistema che, nonostante le buone parole, neanche Mussi ha avuto finora la volontà e la forza di imporre.
Ma chissà, forse era lì che Sorgi voleva arrivare con la sua metafora pasticciera (e piuttosto pasticciata).
Meno male che il tema della telefonata era proprio la (in)competenza dei giornalisti nel trattare i temi della ricerca.
Non sono famoso quanto Sorgi ma, se mi permettete l’ardire, posso provare a dare qualche risposta alla domanda legittima del prof. Romeo (e non solo): perchè la stampa italiana non capisce mai nulla di ricerca?
La ragione più lampante è: nelle redazioni di quotidiani e TG, dove si fa l’informazione che “pesa”, non ci sono giornalisti scientifici. Parlo sul serio. A memoria, ce ne saranno un paio in tutto.
I giornalisti scientifici (sì, esistono anche da noi) fanno i freelance o sono relegati agli spazi fissi di settimanali e mensili (togliamo dal computo il TG Leonardo, che ormai dura poco più di uno spot). Romeo lo sa, perchè un bravo giornalista scientifico ce l’ha in famiglia.
Un’altra ragione è più sconsolante: il livello medio dell’informazione italiana fa pena. Ci lamentiamo delle notizie scientifiche, ma la qualità di quelle politiche, economiche o di cronaca è migliore? Il mio consiglio di giornalista è: smettetela di leggere i quotidiani e di ascoltare i TG. Semmai, leggete i blog – qui devo dichiarare un piccolo conflitto di interessi.
E questo ci porta all’ultima considerazione: i ricercatori ci cascano sempre. Non conoscono il mondo dei media (non è il loro lavoro) eppure cercano (comprensibilmente) di ritagliarsi spazi nei media italiani come se avessero a che fare con Nature. La comunicazione pubblica efficace è un processo strategico, a cui si lavora con la programmazione, il lobbying mediatico, i messaggi efficaci, magari elaborati con l’aiuto di esperti.
Ad esempio, Romeo doveva sapere che la sua domanda avrebbe generato un monologo senza contraddittorio del giornalista. Questa è la formula della trasmissione, e non un trattamento di sfavore riservato a lui, come sembra lamentare nella mail. E poi qual’era il messaggio che voleva far passare? Prima ha piagnucolato sulla scarsità dei finanziamenti ( e basta! …avranno pensato Sorgi e qualche spettatore) poi sulla stampa…insomma, dove voleva arrivare?
Avrebbe dovuto elaborare un messaggio efficace e lanciarlo, non offrire la “schiacciata” al conduttore. Un politico non l’avrebbe mai fatto.
Il professor Romeo ha tutta la mia solidarietà, e l’incidente ha avuto il pregio di farci riflettere. Ma non credo che chiamare in diretta Marcello Sorgi, piagnucolando per la carenza di fondi, sia il modo migliore per perorare la causa della ricerca in Italia.
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Liberiamo la ricerca
Pubblico volentieri l’appello che circola per email di tre ricercatori. E’ una vicenda interessante anche se – devo dire- non condivido del tutto l’appello.
Per i miei commenti sulla vicenda, leggete questo post.
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Cari amici e colleghi,
il conferimento del premio Nobel per la Medicina a a Mario Capecchi ( solo
virtualmente italiano perchè in effetti emigrato negli USA all’età di dieci
anni) ha messo in evidenza due atteggiamenti della stampa italiana di cui
dovremmo tenere conto:
1. innanzitutto la voglia della stampa italiana di scrivere e di
pubblicare notizie positive sulla ricerca italiana (anche se in questo caso
ha costruito ” artificialmente ” un ricercatore italiano)
2. in secondo luogo la voglia dei giornalisti di riscoprire le radici
culturali-scientifiche della ricerca italiana: è infatti vero che Mario
Capecchi ha fatto il suo Ph.D. con Jim Watson, che a sua volta era allievo
di Salvador Luria, premio Nobel e allievo a sua volta di Giuseppe Levi, il
più grande ricercatore nel campo della Biologia e della Medicina fra le due
guerre. Levi, padre di Natalia Ginzburg autrice di “Lessico familiare” ,
era anche il maestro dei premi Nobel Renato Dulbecco e Rita Levi
Montalcini. Tutti questi premi Nobel venivano fuori dalla scuola di Torino e
l’italianità di Capecchi sta tutta qui.
Visto che la stampa italiana vuole delle storie in positivo sulla ricerca
italiana, perchè non iniziamo noi a raccontare ai nostri concittadini
quello che facciamo, a raccontare cioè le storie vere della ricerca italiana
(le nostre) ed a fornire i dati reali della situazione ?
Diciamo questo perchè a seguito del “battage” mediatico sul Premio Nobel a
Capecchi uno di noi (G.R.) è intervenuto […] (mercoledì 10 ottobre)
a Prima Pagina (giornalista di turno Marcello Sorgi della Stampa) chiedendo
perchè i media non si interessano di più ai problemi della ricerca italiana
finanziata dal pubblico (carenza di fondi, sistema di distribuzione mai
basato sul merito, ecc.) sfruttando appunto l’onda di interesse creata
dall’assegnazione del premio Nobel a Capecchi. Risposta di Sorgi, che non è
un pivello: i ricercatori in Italia sono troppi (sic !) e quindi i fondi
pubblici divisi egualmente per tutti questi ricercatori diventano
necessariamente insufficienti. Siamo rimasti allibiti, ma non è stato
possibile replicare perchè non c’era più l’audio.
Dovremmo da domattina giovedì 11 ottobre riprendere l’argomento con Marcello
Sorgi spiegandogli che si è sbagliato (e di molto…) Proponiamo allora a
tutti voi, come prima nostra iniziativa comune di inondare di telefonate
Prima Pagina proprio ad iniziare da domattina con argomenti e dimostrazioni
specifiche che quello che ha detto Sorgi è completamente errato. Se un
giornalista come Sorgi che ha diretto per anni la Stampa commette errori
così grossolani, vuol dire che c’è moltissimo lavoro da fare per tutti noi
per informare correttamente i nostri concittadini. Non siamo troppi e quello
che facciamo è estremamente importante per il Paese !
Coraggio, iniziamo sin d’ora a liberare la ricerca italiana dalla cattiva
informazione.
[…]
Alfredo Coppa (Roma-La Sapienza)
Patrizio Dimitri (Roma-La Sapienza)
Giovanni Romeo (Bologna)
Fuori le staminali dai co…!
“Staminali da testicolo? La soluzione”
Avvenire, 4-10-2007
Basta che siano adulte, poi va bene tutto. Non è il motto di un donnaiolo di bocca larga, ma il messaggio che ultimamente sembra trasparire dalla stampa di casa nostra, quando l’argomento verte, anche alla lontana, sulle cellule staminali.
Il motto vale ovviamente anche per la recente scoperta (o meglio la conferma) dell’esistenza di una nuova popolazione di cellule staminali pluripotenti nei testicoli.
Per tutti gli appassionati di scienza la scoperta è una buona notizia, che si aggiunge ai tanti bei risultati in questo campo.
Per la stampa cattolica è un’ottima notizia, perchè fornisce un nuovo appiglio ad una strana ma ben pilotata associazione di idee, che finisce invariabilmente col dimostrare che la ricerca sulle sacre e intoccabili staminali embrionali non serve a nulla, e in più fa andare all’inferno, mentre la soluzione (loro lo sanno visto che hanno agganci al piano superiore) è nelle staminali adulte.
Ma la Natura, si sa, è capricciosa e stavolta ha deciso di far saltare fuori le nuove cellule-rivelazione proprio dal posto meno politicamente corretto del corpo (almeno per la stampa cattolica). Avvenire non sembra comunque aver accusato il colpo, visto che già nel titolo di un suo pezzo di oggi cavalca con disinvoltura gli zibidei, che scopriamo poi appartenere a sfortunati topolini di laboratorio. Nello stesso numero, un illuminante pezzo dal titolo “Diagnosi genetica? No grazie”.
E così, anche se implicitamente, almeno una cosa l’Avvenire l’ha dovuta ammettere: che dai cosiddetti può uscire qualcosa che serve e che in più ha la benedizione della Chiesa, pur non essendo destinato a procreare. E’ già un bel passo in avanti.
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L’infornata
Nel paese del Gattopardo nulla cambia. I nuovi arruolamenti di ricercatori (si parla di seimila posti nei prossimi tre anni) avverranno con le care vecchie regole di sempre, dopo che il Consiglio di Stato ha bocciato le proposte di riforma maldestramente avanzate dal ministro Mussi.
Traduzione: ecco in arrivo un’altra bella infornata. Seguendo i cari vecchi criteri di concorso su chi tutti sputano, ma che evidentemente alla fine vanno bene quasi a tutti.
Potrei ricordare le promesse di Mussi (” riformo la ricerca o me ne vado”) o sfogarmi con qualche “V” che fa tanto tendenza. Mi piace invece riportare l’analisi, secca e spietata, di Paolo Savona che sul Messaggero parla del “mal di merito” che afflige l’Italia :
“La domanda […] è se si vuole veramente una competizione sociale basata sul merito, che impone regole durissime per chi resta indietro, o sull’egualitarismo, in Italia lungamente predicato, attuato e mai sopito. ” scrive Savona.
Il mal di merito tocca un nervo scoperto del sistema Italiano, di cui la ricerca è solo una parte.
E allora, invece di riempirci la bocca con la false professioni di meritocrazia, dobbiamo chiederci seriamente: qual’è il modello che vogliamo per il nostro paese?
Posta l’ irrinunciabile eguaglianza di diritti e opportunità, meglio un sistema meritocratico, che premia solo i migliori, ma che per definizione lascia un sacco di gente a bocca asciutta?
Oppure meglio quello che abbiamo avuto finora, basato sul principio che siamo tutti “piezz’e core”, teoricamente egualitario ma in pratica classista, perchè premia i più “immanicati” o nel caso migliore i più pazienti, lasciando però a molti qualcosa per essere contenti, e riconoscenti?