Embrionali umane sotto tiro talebano (ancora)
Science Under Politics
During the past two decades, science in Italy has been suffering from a particularly severe form of political interference…
Elena Cattaneo & Gilberto Corbellini
Embo J. Dec 2010 With critical review by Sergio Pistoi
Ricatti
Quando il signor Macheath venne a sapere dalla Pesca che il signor Coax era il prescelto […] gli fu chiaro che contro quel Coax doveva intraprendere qualcosa.Dopo aver un po’ riflettuto prese una decisione , poi, con un tram a cavalli, si recò in una di quella equivoche redazioni di giornali sistemate in due sile stanza, che di solito sono abitate da certi signori ficcanaso e non molto ben lavati, pieni di untuosa retorica.Furono aperte delle vecchie annate di giornali, macchiate e sporche. Le sfogliarono.
Poi il signor Macheath salì su un secondo tram a cavalli che lo portò a Basmith Square. Là, in un appartamento situato dietro un cortile, conferì un incarico a un tizio, un grassone che se ne stava in maniche di camicia. […]
Al Commissariato, la mattina dopo, ebbe una conversazione con l’Ispettore Capo. Curvi sulla scrivania quei due signori studiavano il contenuto dell’inserto avvolto nella carta d’imballaggio specialmente un quaderno a righe legato in cartone rosso: il diario del signor Coax. […]
[L’Ispettore]disse con la sua parlata lenta e meticolosa: “Caro Mac, non c’è nulla da fare contro di lui. Quali siano i suoi affari, non lo sappiamo: per principio non ficchiamo il naso nelle imprese commerciali di gente per bene; che ci servirebbe? Quell’uomo, le sue imposte le paga, e basta. […]. E neanche ci occupiamo della vita privata dei gentlemen; e per quanto riguarda furti con scasso, non ne ha compiuti. L’unica cosa sarebbe una denuncia di due anni fa secondo la quale, in occasione di una retata, questo signore, sarebbe stato trovato in un albergo equivoco insieme alla consorte di un funzionario del Ministero della Marina.
Ma è meglio mettere questa faccenda fra le mani di un giornalista. ti indirizzerò a qualche giovanotto capace di trarne qualcosa.Premette nuovamente un bottone e ricevette un altro fascicolo, piuttosto spesso, sul quale stava scritto: “Ricatti”.
Da “Il Romanzo da Tre Soldi”, Bertolt Brecht, 1958- Trad. Ruth Leiser e Franco Fortini
Lo sfascio della ricerca 2: le metastasi
Metastasi. E’ proprio la parola che ho sentito usare più spesso dai ricercatori più bravi e giovani. Solo che non parlano di cellule maligne, ma di loro stessi. Il laboratorio dove lavorano, quelli che ci stanno dentro, sono metastasi in un organismo, l’ateneo, il dipartimento, che se non li rigetta, al massimo li tollera. Metastasi buone, tumori al contrario, che invece di drenare risorse ne portano, tante, attirando finanziamenti esterni, anche dall’estero. Che nutrono il loro ospite di preziose pubblicazioni, alzando la media della produttività e abbassando quella dell’età. Come in una sismbiosi imperfetta, questi corpi estranei danno molto al loro ospite e in cambio prendono poco.
Se la ricerca italiana, tutto sommato, non sfigura nel panorama internazionale, se la sua produttività media (misurata in numero di articoli scientifici) è la quarta in europa dopo UK, Germania e Francia, se esiste un’eccellenza riconosciuta in diversi campi scientifici, molto del merito va a queste metastasi che riescono a incunearsi, a ritagliarsi un pò di spazio -anche fisico- nell’accademia italiana, contando di volta in volta sulla protezione e l’aiuto di qualche cattedratico più illuminato.
Per un pò ho avuto anche io la fortuna, se così si può dire, di essere una metastasi. Il nostro era un buon laboratorio, diretto da una scienziata brillante. Eravamo una decina, pigiati in dieci metri quadrati. Per entrare attraversavamo enormi stanzoni con una grande scrivania dove sedeva, da solo un professore quasi novantenne. Pare che fosse un vecchio luminare, ma ora nessuno sapeva più cosa facesse. Eppure era lì, e nessuno aveva da ridire. Si stava attenti a tenersi buoni tutti, a non scatenare gli anticorpi dei più potenti, con il rischio di venire rigettati. Nell’università italiana, i cattedratici hanno potere assoluto. Qualcuno di loro (e ce ne sono) a volte decide che il merito va premiato. Ma è sempre e comunque una loro scelta personale, e non la regola di un sistema che, anzi, rema incessantemente contro.
A dire queste cose oggi sembra di fare un favore ad un governo che, invece non mi piace: non passa giorno che i giornali di Berlusconi non tirino fuori una storia di ordinaria baronia, una nuova mappa del nepotismo che impera nelle nostre facoltà a sostegno della campagna distruttiva del loro capo. Ma anche quando la realtà viene usata in modo strumentale, come in questo caso, è sempre una realtà oggettiva e incontestabile, soprattutto da chi l’università la conosce.
Per lunghissimi anni le università sono state svilite, amministrate malamente e usate come feudi dagli stessi baroni che le comandano, termiti bulimiche che oggi piangono miseria. I concorsi sono pilotati, nel pieno rispetto della legalità, perchè l’intero processo di selezione è in mano, per legge, alle singole università, anche se poi lo stipendio di chi vince lo paga (a vita) lo Stato. Improbabili atenei sono sorti come funghi per creare nuove cattedre, così come i corsi che si sono moltiplicati, dilapidando i già scarsi finanziamenti pubblici.
E poi ci sono le metastasi. Ricordiamocele. Perchè quando pensiamo alla ricerca italiana è bene ricordare che parliamo di un sistema dove coesistono baroni, fannulloni ma anche giovani scienziati di valore internazionale, le metastasi buone che sopravvivono e producono nonostante il fatto di vivere in un habitat ostile. Questo distinguo -vitale anche in termini comunicativi- si perde purtroppo nei movimenti di piazza, proprio come avviene oggi. Per farsi sentire si alza il tono della voce e si parla a slogan, i messaggi si diluiscono e le posizioni si accorpano: studenti, ricercatori, docenti da una parte, governo dall’altra. Questo è deleterio, perché mette tutti gli universitari, baroni, mediocri e scienziati eccellenti nello stesso calderone agli occhi del pubblico. In un altro post ho lanciato un appello a questi ultimi di tutto per differenziarsi e parlare con una voce unica che non sia la stessa della baronia accademica.
Una volta sono andato in giro a chiedere ad amici e colleghi più esperti cosa succederebbe se per un colpo di bacchetta magica triplicassero da un giorno all’altro i finanziamenti italiani alla ricerca. Se si raddoppiasse, invece di tagliare, il numero di posti da ricercatore. Cambierebbe così tanto il sistema ricerca italiano? I giovani riuscirebbero a superare il muro di gerontocrazia che li separa da una degna carriera?
La risposta, quasi unanime, è stata no, non cambierebbe quasi nulla. Non finché i fondi, e le posizioni, non verranno distribuiti secondo criteri di merito. Per valorizzare il merito non c’è bisogno, almeno oggi, di rifondare l’università. Sarebbe sufficiente agire con intelligenza sui rubinetti dei finanziamenti, premiando veramente chi se lo merita, e lasciando a secco gli altri. Non bisognerebbe inventare nulla di rivoluzionario: esistono da tempo sistemi ben rodati e consolidati internazionalmente, che permettono, nei limiti del possibile, di allocare risorse ai ricercatori e ai progetti migliori. Con la volontà politica e il consenso del mondo accademico, applicare questi metodi sarebbe una questione di mesi, non di anni. La volontà politica non c’è, e questo è un fatto. Ma siamo sicuri che il mondo accademico voglia veramente farlo?
Leggi il seguito: Meritocrazia? Not in my Backyard!
© Sergio Pistoi 2008*Nota: chi legge nazioneindiana.com. troverà un post molto simile a questo è sempre mio, me l’hanno chiesto e ho aderito volentieri
Meritocrazia? Not in my Backyard!
Qualche tempo fa meristemi, commentando un mio post , faceva notare come la meritocrazia in italia, sia una questione NIMBY: not in my backyard. “Come l’integrazione culturale-scrive meristemi -” è una cosa che tutti dicono giusta e rispettabile, ma che ognuno se la faccia a casa propria“. Sono d’acccordo. Di meritocrazia, oggi, si riempiono la bocca in tanti, anche quelli che preferirebbero vederla applicata solo agli altri.
Anche se continuano a usarla come parola-chiave nei loro discorsi, i rappresentanti del mondo accademico e le associazioni dei docenti si sono di fatto sempre opposti – con varie scuse- ad ogni tentativo di introdurre criteri meritocratici secondo standard internazionali. Nonostante i proclami, molti, troppi nel mondo della ricerca, vogliono ancora che i soldi, anche pochi, arrivino. A pioggia, senza troppo guardare al merito. Questa non è propaganda governativa, ma la realtà dell’università italiana con la quale, volenti o nolenti, pro o anti Gelmini, tutti dobbiamo fare i conti. Perchè la meritocrazia è un’arma a doppio taglio: se sei bravo i soldi arrivano, altrimenti sei tagliato fuori. E questo non piace quasi a nessuno.
Nel nostro paese solo alcune fondazioni private, tra cui Telethon, e un ente pubblico, l’AIFA (che però rischia di subire una disastrosa ristrutturazione) hanno adottato criteri stringenti, meritocratici e rispondenti alle migliori pratiche internazionali per la selezione dei progetti da finanziare. Segno che anche da noi, se si vuole, è possibile farlo. Eppure conosco solo un gruppo di ricercatori, trasversale a varie facoltà e discipline, che oggi sta portando avanti seriamente e concretamente una campagna perchè questi standard vengano realmente applicati a tutti i finanziamenti pubblici.
Tagliando in modo indiscriminato, il governo dimostra tutta la sua incompetenza e disinteresse a risolvere i problemi in modo serio. Ma dare tutta la colpa ai politici è facile, ma non dimentichiamoci che i ministri fanno danni (come la Gelmini) o al limite non combinano un tubo (come Mussi) ma, almeno prima o poi se ne vanno. I gerontocrati che da anni divorano dal’interno il mondo accademico italiano, invece, rimarranno inossidabili al loro posto, finchè qualcuno non userà con più buon senso la leva dei finanziamenti.
Leggi il post precedente: le metastasi
La peer review si impara
Tutti sono d’accordo sul fatto che nel nostro paese serva un sistema di valutazione più rigoroso nella distribuzione dei fondi. Ma mentre tutti parlano di meritocrazia nei finanziamenti, pochi fanno qualcosa di concreto.
Per questo mi fa piacere segnalarvi il corso pratico di peer review che inizia l’8 Novembre prossimo a Bologna, organizzato dalla European Genetics Foundation, Telethon il PROGEN Consortium e l’Università di Bologna è la prima iniziativa di questo tipo in Italia ed è rivolta soprattutto agli science officers che hanno a che fare, a vario titolo, con la valutazione e il finanziamento di progetti scientifici.
Sono previste sessioni pratiche e tavole rotonde con esperti internazionali del settore.
PEER REVIEW IN THEORY AND IN PRACTICE
Training course for Scientific Officers of European Research Funding Organizations
November 8-10, 2008
EuroMediterranean University Centre of Ronzano, Bologna, ITALY
Le iscrizioni sono ancora aperte a posti limitati (50).
Pizza accademica
E’ un gran casino.
Non lo dico io. Lo dice Giuseppe Pizza, intervistato ieri (mercoledì) da Repubblica. Ve lo ricordate il camaleontico Pizza, quello che minacciava di far rinviare le elezioni? Ora è sottosegretario alla Ricerca. Per capirsi, la figura che dovrebbe guidare la ricerca del sistema Italia nella dura competizione internazionale. Quella che dovrebbe indicare le strategie per non restare indietro in un settore vitale come quello della ricerca e dell’innovazione.
Non si capisce se il suo “casino” alludesse ai provvedimenti Gelmini, alla famigerata legge 133 o alle proteste che ne sono seguite. Comunque ha ragione: effettivamente è un gran casino.
Nella stessa intervista ha precisato che lui, sottosegretario alla Ricerca, da tutta questa questione si tiene lontano. Lui, dice, si occupa solo di ricerca spaziale. Si vede che è uno che si tiene fuori dai casini. Vedete voi.
Lo sfascio della ricerca: corso di comunicazione for Dummies
Caro Sergio, mi sono imbattuto per caso nel tuo blog. […] preso dai pensieri dominanti di questi giorni, mi sono chiesto: ma e’ possibile che non ci sia neanche una riga sugli effetti della legge 133/08 sull’universita’ e la ricerca? Poi, ho letto il finale dell’articolo sui professori “ingrilliti” e ho capito…Pero’, ho pensato, forse potrebbe essere utile avere suggerimenti su come noi universitari italiani, diretti interessati dai prossimi tagli di fondi e persone, possiamo comunicare all’esterno dell’universita’ le nostre difficolta’ presenti e future.In questi giorni lo stiamo facendo un po’ tutti, improvvisandoci comunicatori: hai forse qualche consiglio da darci ? Attendo con fiducia, e nel frattempo tornero’ a trovarti sul tuo blog. […]Alessandro, ricercatore (Università di Firenze)
Caro Alessandro, ti ringrazio per la fiducia e dello spunto che mi offri.
Il tema è stimolante e di grande importanza, specialmente in un periodo come quello che stiamo attraversando: come fare a trasmettere in modo efficace le proprie istanze di ricercatori al pubblico perché le comprenda e -se è il caso- le appoggi?
Facendo come al solito l’avvocato del diavolo, un pezzo di risposta la trovo nelle tue parole. Per quanto sia legittima, la tua domanda: “come possiamo comunicare all’esterno dell’universita’ le nostre difficolta’ presenti e future?” è -secondo me- sintomatica di un errore di fondo da parte dei ricercatori. Siamo sicuri infatti che la chiave giusta per parlare al pubblico sia quella di comunicare continuamente le proprie difficoltà?
L’importanza del messaggio
Non sto naturalmente sottovalutando le difficoltà della ricerca (che ben conosco) ma la comunicazione è un processo strategico che non lascia spazio all’autocommiserazione, giustificata o meno. Se ci mettiamo nella testa di un italiano medio, alle prese con inevitabili difficoltà quotidiane (compresa quella di arrivare a fine mese, trovare l’asilo per il bambino o l’angoscia per il proprio conto corrente) in quale posizione di priorità finiranno le difficoltà di un “altro” (il ricercatore) alle prese con i PROPRI problemi di lavoro, salario o quant’altro? Mi pare che nello sforzo (legittimo) di tutelare la propria categoria, i ricercatori e molte loro associazioni abbiano trasformato i tagli alla ricerca in un problema sindacale di posti di lavoro, come se il fatto riguardasse la sorte di qualche migliaio di addetti ai lavori. Questo almeno è il messaggio che il pubblico rischia di percepire se mi baso sulle rassegne stampa che leggo quotidianamente.Al contrario, bisognerebbe fare molto di più per trasmettere CONCRETAMENTE un idea diversa: la ricerca è un bene di tutti.Una campagna efficace ad esempio, dovrebbe far capire al pubblico l’importanza concreta della ricerca per lo sviluppo economico, il benessere di ciascuno, la formazione dei propri figli. Questo significa spostare l’attenzione dai problemi dei ricercatori alle opportunità che ciascun cittadino rischia di perdere.Il primo consiglio che posso dare (umilmente) è perciò quello di resistere alla tentazione di vedere pubblicata sui giornali la propria triste storia di ricercatori con pochi fondi e assillati dalle baronie, puntando invece su messaggi diversi e più efficaci.
Il servizio pubblico della lamma riporta ad esempio questa frase:
Si avvisa che a seguito dello stato di agitazione del personale del CNR contro i tagli di finanziamento della ricerca pubblica potrebbero verificarsi alcuni disservizi
Volontario o meno, è un messaggio concreto che tutti possono capire: la ricerca non è solo un hobby per pochi eletti ma il motore dell’innovazione che tutti, prima o poi, useremo. Quanti sono i servizi che, oggi, dipendono anche solo in parte dal lavoro dei ricercatori e che rischiano di fermarsi?
Recuperare la credibilità
“Differentiate or Die” è un motto del marketing, oltre che il titolo di un bel libro di Jack Trout. Il succo è che se non si vuole morire (commercialmente parlando) bisogna fare di tutto per differenziare il proprio marchio e la propria voce da quelle che risultano troppo simili, far risaltare agli occhi del pubblico le proprie caratteristiche distintive e positive e far leva su di esse. Nel caso dei ricercatori italiani, questa regola implica una priorità: quella di differenziarsi da chi parla a vanvera (o peggio ancora in malafede) così da recuperare la necessaria credibilità agli occhi del pubblico.
Possiamo porre il problema in questi termini: quanti di quelli che oggi protestano contro i tagli alla ricerca hanno veramente la credibilità per farlo? L’immagine che molti si sono fatti della ricerca italiana attraverso i media è quella di un sistema marcio, governato da baroni e popolato da mediocri fannulloni. Direi che non è un’immagine falsa, ma neanche del tutto vera. Una parte del pubblico, quella più attenta, sa infatti che in questo sistema coesistono scienziati bravissimi e coraggiosi a cui va il merito di una produttività eccellente, dimostrata dai dati internazionali. Tuttavia, in assenza di un sistema di selezione meritocratico, e senza una chiara distinzione comunicativa, baroni, mediocri e scienziati eccellenti saranno tutti nello stesso calderone agli occhi del pubblico. Considerando che più ardenti oppositori dei tagli alla ricerca sono spesso gli appartenenti alle prime due specie, come fa il pubblico a sapere chi sta ascoltando? Come fa a dare fiducia ad una categoria che nel complesso è screditata?
Per i ricercatori seri, direbbe Jack Trout, la priorità è quella di differenziarsi da baroni e fannnulloni. Per questo, i ricercatori che hanno a cuore il futuro della ricerca, precari o meno, dovrebbero creare una categoria, un’associazione, un gruppo di pressione, che parli con una voce unica e che non sia la stessa delle CUN, delle CRUI e delle tante termiti che hanno contribuito a portare l’università alla sfacio.
Dovrebbero battersi strenuamente perchè al taglio dei finanziamenti-se ci sarà- corrisponda un sistema serio e meritocratico di distribuzione dei fondi, accettando il rischio di non ricevere nulla quando non risultano competitivi. Qualunque sia la strategia comunicativa, i ricercatori di valore dovrebbero cominciare ad uscire dal calderone e distinguersi in modo più chiaro da baroni e fannulloni, portando messaggi e proposte positive. Esistono iniziative interessanti in tal senso, ma piuttosto parziali e quasi mai frutto di uno sforzo unitario.
Non posso che rispondere in modo parziale e incompleto alla tua domanda, caro Alessandro, ma spero sia l’inizio di una discussione fruttuosa su questo blog. © Sergio Pistoi 2008