La genetica del gusto: una “pillola di scienza” a Expo 2015
La scelta di Jolie e i limiti dell’empowerment genetico
Dopo la mastectomia preventiva di due anni fa, Angelina Jolie-Pitt racconta oggi sul New York Times la sua seconda, difficile decisione: quella di di farsi rimuovere le ovaie e le tube di Falloppio. Era una mossa prevedibile, considerato il tipo di mutazione e la sua storia familiare (chi ha seguito i miei interventi e il nostro spettacolo sul Dna ricorderà che lo avevo anticipato raccontando il caso della celebre attrice). La rimozione delle ovaie, e la menopausa forzata che ne è scaturita, è stata una scelta ancora più ardua rispetto alla mastectomia e ci è voluto tempo per valutarla, racconta la Jolie. Il rischio di un tumore ovarico nel suo caso arrivava al 50%.
Che ci sia o no la mano di un ghostwriter, l’ op-ed di Jolie sul New York Times, così come il precedente di due anni fa, sono esemplari per la chiarezza, l’umanità e l’equilibrio del racconto. Anche se non lo nominano esplicitamente, entrambi i pezzi insistono sull’ idea di empowerment, particolarmente radicata nella cultura americana. Knowledge is power, sapere è potere, è un concetto spesso legato alla medicina predittiva, e non a caso la Jolie ha scelto proprio questa frase come chiusa del suo articolo. Ironicamente, knowledge is power è lo stesso slogan che, brandito da aziende di genomica diretta al consumatore come 23andme, ha fatto infuriare la Food Drug Administration (FDA) che nel 2013 ha imposto a 23andme lo stop sulla commercializzazione dei test predittivi sulle malattie.
C’è una differenza fra l’empowerment genetico di Angelina Jolie e quello che fa gridare allo scandalo la FDA? Possiamo riassumere un dibattito articolato tracciando un confine pragmatico chiaro a tutti: sapere è potere quando il risultato indica un rischio chiaro e, soprattutto quando serve a prevenire, limitare o curare una malattia. Se vengo a sapere che una serie di varianti genetiche mi aumenta del 20% il rischio di avere il tumore alla prostata non mi serve a niente, e rischia di sprofondarmi inutilmente nell’ansia. Se scopro di avere il 70% di possibilità di contrarre il Parkinson (esistono mutazioni rare che danno questo tipo di rischio) non mi aiuta a evitare il problema, perché oggi non c’è nessuna prevenzione per quella malattia. La maggior parte dei risultati forniti e pubblicizzati dalle aziende di genomica personalizzata sono di questo tipo: abbastanza inutili, perché quasi tutte le malattie che ci colpiscono sono complesse e quindi con un rischio genetico difficile da stabilire. Oppure il rischio è chiaro ma non c’è prevenzione, come per il Parkison.
Quello di Angelina Jolie è invece uno dei rari casi dove, oggi, sapere è potere. La sua mutazione (in un gene che si chiama BRCA-1) e la sua storia familiare indicano un rischio chiaro e inoltre esistono opzioni, difficili quanto vuoi, per limitare il rischio. Per chi come Angelina ha un rischio genetico di tumore che sfiora l’80%, rimuovere i seni e le ovaie è una scelta per riportare alla norma le possibilità di sopravvivenza. E’ l’unico modo per non giocare alla roulette russa. Si tratta di casi rari: se sommiamo la mutazione di Angelina con tutte le altre oggi conosciute, arriviamo a spiegare meno di un caso di tumore alla mammella su 10, lo stesso per quelli alle ovaie. Insomma, la maggior parte delle donne non troverà mai nel proprio DNA un rischio genetico chiaro per queste malattie. Ma per chi ce l’ha, sapere fa la differenza.
Sui limiti dell’empowerment si giocherà il futuro della medicina predittiva, che oggi oscilla pericolosamente fra l’entusiasmo incondizionato e un terrore altrettanto ingiustificato. Tempo fa, una delle migliori genetiste specializzate in tumori mammari mi ha raccontato quanto sia difficile trovare un equilibrio fra i due estremi. Sono tante, troppe le donne con una storia familiare di tumore che per paura o ignoranza (spesso anche del medico curante) non si avvalgono di un test genetico che potrebbe fare la differenza. E ogni volta che nei miei interventi introduco la storia di Angelina Jolie, nei volti delle ragazze di ogni età e nei loro commenti leggo spesso paura, quasi ostilità verso una tecnologia che, invece di risolvere (non è questo che deve fare, la medicina?) aggiunge il dilemma di una scelta difficile.
Eppure dobbiamo abituarci: la medicina offrirà sempre meno soluzioni e sempre più opzioni che starà a noi esercitare o meno. L’empowerment non è qualcun altro che decide per noi.
“Queste scelte sono parte della vita, non cose di cui avere terrore,” dice giustamente Angelina Jolie. Il fatto che sia ricca e famosa non cambia le cose, perché le stesse opzioni mediche sono disponibili a tutte le donne dei paesi industrializzati con una storia familiare simile alla sua. Non tutte dovranno fare la stessa scelta radicale, anche se personalmente e razionalmente la condivido. Si può decidere per interventi meno invasivi, pur sapendo di prendersi un rischio maggiore. Si può scegliere consapevolmente di non disinnescare la roulette russa. Ma tutti devono sapere che esiste la possibilità di una consulenza genetica appropriata. Morire per ignoranza non è un’opzione accettabile.
25-2-2015. Modificato il primo paragrafo: il rischio di tumore ovarico con brca-1 è del 50% non 75%.
© Sergio Pistoi 2015
23 and us- intervista a Radio3 Scienza
Radio 3 Scienza 10/02/2015
Tu mi dai un campione di saliva e io ti vendo i dati genetici che contiene: per esempio, le malattie a cui sei predisposto. È quello che offriva la società 23andMe, finché la Food and drug administration non ha posto il veto su questo servizio negli USA. Ora l’azienda americana ha concluso un nuovo affare con il colosso farmaceutico Pfizer: 60 milioni di dollari in cambio dei dati genetici di 800.000 persone, come ci racconta Sergio Pistoi, giornalista scientifico, biologo molecolare e autore di Il DNA incontra Facebook (Marsilio 2012). Ma come si interpretano questi dati e come possono essere utilizzati per promuovere la salute delle persone? Lo chiediamo a Francesca Torricelli, direttrice del settore diagnostica genetica presso l’Azienda ospedaliera universitaria Careggi.
Al microfono Roberta Fulci
(fonte: Radio3Scienza)
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The Million Click Baby
Nina ha una malattia rara. Ma grazie ad un blog seguitissimo è diventata una piccola star del web con migliaia di followers che la sostengono. Cosa è cambiato nella vita di Nina grazie alla tecnologia? Quanti sono i pazienti che formano comunità su internet? Qual’è il futuro della medicina narrativa in rete?
Ho passato una giornata con Nina e con la sua famiglia speciale. La loro storia è una finestra aperta sui social network di pazienti, l’ultimo boom della medicina e della ricerca in rete. Un mare di informazioni utili dove però le famiglie devono navigare a vista per evitare bufale e squali. Il mio racconto in esclusiva sul numero di Wired in edicola a Dicembre, con le belle foto di Sirio Magnabosco.
Geni a Bordo: la scienza viaggia in camper
Due autori. Un camper. 13 città. 5.000km. 2500 studenti curiosi. E’ tutto pronto per il primo #geniabordo tour!
Dall’ 8 al 23 ottobre, insieme al collega Andrea Vico girerò l’Italia in camper incontrando studenti e insegnanti degli istituti superiori con conferenze interattive e divertenti . Un modo diverso ed efficace di avvicinare i giovani alla scienza, massimizzando il rapporto costi/risultato.
A novembre è previsto un webinar (conferenza interattiva sul web) per estendere la partecipazione anche alle città non raggiunte dal camper.
Con la collaborazione di Farmindustria.
Seguiteci su Facebook, Twitter: (#geniabordo) e web. Racconteremo il tour giorno per giorno.
Per informazioni e per il percorso del tour:
www.geniabordo.it
Stay tuned!
Peccato. Era carina. E anche dotata di una fervida immaginazione.
Un periodaccio per Haruko Obokata, biologa giapponese del Riken Institute e primo autore di un metodo rivoluzionario per indurre normali cellule a diventare staminali con una semplice stimolazione , una bella scoperta di cui si è molto parlato. Troppo bella per essere vera. Dopo la pubblicazione a gennaio sulla rivista Nature molti hanno sollevato dubbi sulla veridicità di quei dati.
Pochi giorni fa, un’indagine del Riken ha concluso che i risultati erano costruiti a tavolino. E oggi su Nature il gruppo ritratta il tutto, ammettendo ufficialmente la bufala.
Una revisione più attenta prima della pubblicazione poteva evitare questa figuraccia alla rivista e alla comunità delle staminali? Secondo l’editoriale di Nature, no (e figuriamoci). Secondo il resto del mondo, si.
Al pezzo di avanspettacolo seguirà dibattito sulla qualità del peer review.
PS: il titolo si riferisce a Nature, non (solo) alla sventurata giapponese.
Quasi artificiale. La vita al tempo della biologia sintetica
Il 17 Giugno scorso il Piccolo Teatro di Milano e la Fondazione Sigma Tau hanno ospitato un dibattito interessante sulla biologia sintetica. Argomento di grande attualità dopo che un gruppo americano ha annunciato di essere riuscito a far riprodurre batteri che portano “lettere” artificiali nel loro Dna.
Sul palco, moderati da Federico Pedrocchi, Edoardo Boncinelli, Diego di Bernardo, Carlo Alberto Redi e Amedeo Santosuosso. Ho accettato con piacere l’invito a partecipare, anche se non potendo essere quel giorno a Milano l’ho fatto virtualmente e in versione sintetica, producendo un breve video che è stato proiettato durante l’incontro. Il video (6′) lo trovate qui sotto. Ho deciso di mostrare soprattutto come la comunicazione contemporanea, e in particolare le serie TV, si appropriano immediatamente di concetti tecnologici come appunto il Dna artificiale.
L’intera conferenza è invece online a questo indirizzo:
La comunicazione scientifica? Fantastica, ma fuori dall’università.
Uno/una come te ci servirebbe come il pane.
C’è bisogno di insegnare la comunicazione scientifica nei corsi di laurea.
E magari anche ai ricercatori.
Se fate il mio lavoro, queste frasi le avrete già sentite. Non c’è simposio, incontro o tazzina di caffè fra comunicatori scientifici e ricercatori dove questi ultimi non si lamentino sulla carenza di esperti in grado in insegnare e sperimentare la buona comunicazione nelle facoltà scientifiche. In un posto normale si parlerebbe di un incontro perfetto fra domanda e offerta: eccolo il comunicatore, è davanti a te, è il tuo giorno fortunato. Parliamone.
Ma l’università italiana non funziona così, e i suoi esponenti fanno finta di non vedere il classico elefante nella stanza. Se c’è così bisogno, perché il mondo della ricerca non offre un percorso decente di carriera per i comunicatori scientifici? Sarebbe così difficile? Se non lo fanno gli atenei che dicono di averne necessità, chi altri può farlo?
Il problema è serio: a quanto ne so (spero di sbagliarmi ma non credo) in Italia non c’è una sola vera cattedra di comunicazione scientifica (per vera intendo con sopra un esperto del settore invece che un microbiologo/fisico/filosofo della scienza o altri eminenti studiosi di campi che non c’entrano nulla). La realtà è che a parole tutti li vogliono, questi comunicatori, ma nessuno sa dire loro come fare a mettere piede negli atenei. Per chi voglia intraprendere una carriera accademica nel campo della comunicazione scientifica, infatti, la strada finisce presto in un vicolo cieco.
Prendete ad esempio la famigerata Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN) . Per chi non la conosce, si tratta di un “concorsone” preventivo: non garantisce alcun posto, ma chiunque aspiri un giorno a diventare professore universitario di prima o seconda fascia deve per forza concorrere per avere questa famigerata abilitazione. Non voglio entrare nel merito del meccanismo, che molti considerano una cavolata. Quello che mi ha colpito è un’altra cosa: fra i 184 settori concorsuali dell’ASN, che rappresentano praticamente tutte le discipline universitarie, non ce n’è neanche uno assimilabile alla comunicazione scientifica. La competenza di cui le università dicono di avere così bisogno, nel concorsone non è prevista. E senza abilitazione, niente carriera universitaria per i comunicatori.
Ho chiesto conferma ad una persona che stimo, un professore che conosce bene i meccanismi universitari e che gentilmente ha accettato di analizzare il mio CV, che è quello un comunicatore e docente freelance con una discreta esperienza. Dopo varie ricerche mi ha detto che forse c’è un settore dove potrei tentare, ed è nel campo della sociologia. Proprio così, dovrei concorrere insieme ai sociologi e affini, ma – aggiunge il mio insider- in quel contesto non avrei nessuna speranza di far valere il mio CV. La mia esperienza come comunicatore potrebbe essere stellare, posso anche aver collaborato con le migliori riviste del settore e insegnato nei migliori centri del mondo, ma siccome la mia specialità non esiste, neanche i miei titoli valgono un tubo. E siccome le mie pubblicazioni in campo sociologico sono pari a zero, non mi vogliono più. (disclaimer: conosco bravi sociologi che si occupano anche di scienza . Ma è una cosa molto diversa da quello che l’università lamenta: la mancanza di gente che pratichi e insegni la comunicazione scientifica. Mi sembra chiaro).
L’unico consiglio del mio insider è quello di pubblicare più saggi tecnici su riviste sociologiche. Avete capito bene: il mondo della ricerca dice di avere bisogno urgente di divulgatori, ma prima vuole che diventino sociologi. E che passino anni a fare la gavetta pubblicando come tali, sperando un giorno di vedere riconosciuto il loro vero talento di comunicatori. Kafka in confronto è un dilettante.
Forse per consolarmi, l’insider dice che la mia figura sarebbe tuttavia interessante per una docenza a contratto. Non ho nulla in contrario. Se organizzata bene si potrebbero fare cose interessanti anche con quella. Ma quante sono le docenze a contratto affidate a comunicatori con esperienza sul campo? Io non ne conosco (non parlo di master e affini ma di corsi di laurea). E resta il fatto che questi docenti rimarrebbero sempre con un piede fuori dalla porta, non esistendo cattedre e neanche un settore di carriera a loro dedicato. Come le suore in Vaticano, nell’università italiana i comunicatori sono a quanto pare essenziali, ma non potranno mai andare lontano.
Colpa dell’ ASN, del ministero, dell’ANVUR, si dirà, non delle università. Col cavolo. Le cose stanno così da sempre, anche prima che ASN e ANVUR nascessero. Gli atenei italiani non hanno mai previsto uno spazio per i docenti-comunicatori, come succede all’estero, perché il settore è una delle tante faccende NIMBY della nostra accademia: benevengano i comunicatori, basta che finito il loro speech tornino a casa e non pisticchino l’orticello di chi già è dentro. I posti scarseggiano, c’è la coda per gli scienziati veri, figuriamoci se si possono dividere le cattedre con qualche guitto che viene a insegnare come si racconta la ricerca, come si coinvolge il pubblico, come si evita di farsi prendere in giro dalla stampa. Si fa prima a lamentarsi, e magari a chiedere che vengano ogni tanto a dire due cose, meglio se gratis.
Cari amici cattedratici, i problemi delle facoltà li conosco bene, ci ho vissuto e avete la mia solidarietà. Non mi sto neanche lamentando per me, dato che anche così sto bene e per ora me la cavo bene. Ma siete voi che vi lagnate e poi non risolvete, o sbaglio. Non dico che dovrebbe funzionare come negli altri paesi, dove se un dipartimento ha bisogno di una competenza se la cerca e la recluta direttamente, come succede per i miei colleghi americani o inglesi. Ma almeno, possiamo evitare i discorsi inconcludenti sulla carenza dei divulgatori e passare invece a ragionamenti più pratici? Tipo:
- Avete davvero bisogno di bravi professionisti in grado di insegnare? Ottimo. Ce ne sono già molti in giro.
- C’è qualcosa che voi e i vostri atenei volete, potete fare per reclutarli?
- Ci state a creare un percorso di carriera serio, magari rinunciando ad una briciola del vostro terreno accademico?
- Volete, potete trovare delle risorse adeguate?
- Perché non create corsi/cattedre ad hoc, magari con fondi privati, anche a termine, e li affidate a gente in gamba (se ve le spartite fra voi, non funziona)?
Se avete delle risposte concrete, allora siamo sulla buona strada, parliamone.
Se invece la solfa è sempre la stessa, se la coperta è troppo corta eccetera io vi capisco e sono dalla vostra parte ma fatevi un favore: smettetela di lagnarvi con noi che siamo fuori e mettete ordine nelle vostre facoltà. Parlate con i vostri rettori e magari col ministro.
Lo so, è meno figo che organizzare qualche bel simposio per piangere in compagnia, ma fidatevi, sarebbe più utile.