Davvero il freddo fa male?
Se hai una Mamma Italiana sei stato probabilmente coperto da strati sovrapposti di lana, kevlar, tungsteno e molibdeno perché altrimenti “ti prendi una polmonite fulminante”. E oggi che sei grande forse oggi nel tuo appartamento c’è la temperatura di un forno.
Davvero il freddo fa male? E se invece fosse il contrario? Risponde la scienza.
Una AI può vincere il Nobel? (la risposta non è ovvia)
“L’intelligenza artificiale può essere un rischio per la ricerca” è il titolo di un recente articolo del Sole24Ore che riporta un’intervista a David Gross, premio Nobel per la Fisica nel 2004. “L’intelligenza artificiale -dice Gross citato nell’articolo- per quanto potente e affascinante, si muove su un terreno completamente diverso: non osserva, non verifica, non replica (…) L’Ia si limita a calcolare la risposta più probabile, pescando da un mare di dati preesistenti, senza cercare la verità”.
Credo che questo pensiero di Gross sulla AI (forse condiviso da molti scienziati) rifletta solo parzialmente la realtà e lo dico con un certo rammarico antropocentrico.
Sono d’accordo che l’AI, così come la conosciamo oggi, è piuttosto in antitesi con il metodo scientifico, e spiegherò più avanti perché. Ma credo sia ingenuo affermare che una AI non sarà in grado tra poco di generare conoscenza ed elaborare teorie e ipotesi scientifiche originali. Lo faranno quasi certamente, ma senza necessariamente seguire il metodo scientifico come lo conosciamo noi.
Se vogliamo evitare di essere antropocentrici o peggio mistici, bisogna accettare che la “creatività” è un fenomeno complesso che mescola conoscenza preesistente, esperienza e processi organici (cerebrali) ed è quindi potenzialmente duplicabile un giorno da sistemi artificiali. Le reti neurali si ripromettono di emulare il processo cognitivo umano. Oggi sono rudimentali, domani potrebbero essere indistinguibili dalla creatività umana, e potrebbero anche superarla. Difficile immaginare che l’intelligenza artificiale non riesca a farlo, a meno appunto di non volersi aggrappare disperatamente a qualche dogma.
Secondo l’esperto di AI Nello Cristianini, ad esempio, la cosa più verosimile è che queste macchine possano diventare creative a modo loro, seguendo strade molto diverse dalle nostre per risolvere problemi ( lo spiega molto bene nel suo libro La Scorciatoia che consiglio caldamente di leggere).
Tuttavia, per come è concepita e funziona non possiamo sapere come un’intelligenza artificiale è arrivata alla soluzione: c’è una “black box” (così si chiama in gergo) che non è forse dissimile da quello che succede quando noi, umani, ragioniamo e impariamo: come sei arrivata/o a pensare quello, a farti piacere quell’altro, a imparare quella lingua da piccolo? Non lo sai, o meglio, sai che qualcosa di molto complesso è successo nel tuo cervello ma non accedi ai dettagli. Su questo aspetto la AI, come la conosciamo oggi, è in antitesi con il metodo scientifico.
Una base del moderno metodo scientifico è che una teoria debba avere caratteristiche di falsificabilità, cioè gli altri devono essere in grado di metterla alla prova e, eventualmente, di smentirla. E’ il contrario della black box, direi perfino un sistema sociale per ovviare alla black box umana. Se vuoi rientrare nei canoni scientifici, mi devi sempre descrivere cosa hai fatto, come l’hai fatto, in modo che tutti lo possano riprodurre e verificare. Il ciarlatano che si sveglia la mattina con la cura dei tumori rifiutando lo scrutinio degli esperti è una black box che non ha spazio, giustamente, nel pensiero scientifico.
Ma il metodo scientifico è una creazione umana calibrata per il nostro processo cognitivo, per la nostra cultura e limiti biologici, è il sistema migliore che abbiamo NOI.
Alle macchine probabilmente tutto questo non servirebbe: seguirebbero comunque le loro strade arrivando al risultato, magari per forza bruta. Le AI “scienziate” forse un giorno potrebbero prosperare anche senza di noi. Se il nostro standard è la revisione tra pari (peer review) è verosimile che le macchine, evolvendo, possano elaborare un sistema di verifica analogo che coinvolga altre AI (tra pari, per definizione), tagliando fuori gli umani. Perché mai affidarsi alla mente umana, con i suoi bias e limiti, per verificare teorie che magari non riesce neanche a concepire? Per una AI futuribile che indaghi la natura, avere a che fare con colleghi umani sarebbe probabilmente un ostacolo, peggio che doversi caricare qualche impiastro di studente.
Perché le macchine intelligenti possano entrare nel ciclo (tutto umano) del metodo scientifico- e perché tutto ciò non diventi una distopia per noi- dovranno forse essere programmate e concepite per tenere aperta una finestra nella black box, anche a scapito della loro efficienza. Dovranno essere in grado di spiegare agli umani le loro “idee” e conclusioni, formalizzarle in un linguaggio che sia per noi comprensibile, così che potremmo verificarle.
Dovranno essere oggetti che arrivano alla soluzione senza pensare come gli umani ( è la loro forza, che ci piaccia o meno) ma allo stesso tempo in grado di ragionare con noi, e piegarsi al metodo scientifico, anche solo per mostrarci come ci sono arrivate.
Sarà possibile? Riusciremo a concepire questo tipo di IA?
© Sergio Pistoi
MAGA: Make Astrology Great Again!
La mascherina FFP2 è una di quelle invenzioni che dovrebbero piacere a tutti: economica, tecnologica (non sembra ma lo è), priva di effetti collaterali, niente farmaci, protegge dalle infezioni aeree in modo altamente efficace e permette lo svolgimento delle attività quotidiane anche durante un’epidemia.
Perché allora, nel mezzo della più grande pandemia del secolo (ma ce ne saranno altre peggiori, non temete) abbiamo visto gente inveire violentemente contro le innocue e utili mascherine? Perché tutto fa brodo come pretesto per dividere, creare polarizzazione e cercare di capitalizzare su di essa, anche una mascherina. I movimenti no-mask, nati negli USA e da noi scimmiottati da Salxxni e simili, sono stati l’avanguardia dello sciacallaggio politico e comunicativo legato al COVID-19, Ne ho già parlato molte volte durante la pandemia.
La strategia è talmente brutale che cascarci sembra quasi puerile: gli spin doctor di certi movimenti passano praticamente la giornata a sperimentare sui social pretesti per polarizzare, creare divisioni, confusione. Se questi memi tossici attecchiscono, diventano un ottimo sistema per creare artificialmente una minoranza scontenta (no-mask, no-vax, no-sticazz) di cui ti fai portavoce politico, ma le cui istanze sono appunto create in laboratorio, non vere esigenze dal basso. Queste ultime , le istanze vere, sono poche, ben note, già appannaggio tradizionale di altri partiti, e soprattutto sono difficili da accontentare perché richiedono soluzioni reali e non memi.
I movimenti no-mask, come i no-xy che seguiranno, sono creature politiche, gonfiate dai media (anch’essi in cerca di polarizzazione) ad uso e consumo di strati sempre più imponenti di analfabeti funzionali, che abbiamo o meno la laurea in tasca.
A fornire la base pseudo-scientifica a quel movimento è stata la famigerata Great Barrington Declaration, un documento dell’ottobre 2020 privo di referenze e prove scientifiche, nato sotto l’egida del think tank ultra-liberista American Institute for Economic Research, che incitava a evitare lockdown e perseguire l’infezione naturale per inseguire una altrettanto fantomatica e immunità di gregge. Un’idea delirante e fallimentare anche alla luce di quello che abbiamo visto durante la pandemia e anche oggi, dove nuove varianti virali continuano a circolare perfino tra la popolazione pluri-immunizzata e vaccinata. Una bischerata ridicolizzata da qualunque ricercatore e biologo(a) degno(a) di questo nome, ma che portava la firma di professoroni dell’ Ivy League come Jay Bhattacharya (Stanford), Sunetra Gupta (Oxford), Martin Kulldorff (Harvard, verrà successivamente licenziato).
I tre luminari si distinguono per la frequentazione di ambienti di ultra destra trumpiani, dove faranno carriera, e per le posizioni contrarie al controllo dell’epidemia, alla vaccinazione dei bambini, all’obiezione all’uso delle mascherine e simili amenità. Quello straccio di documento, menzionato a pappagallo e mentula canis da milioni di troll e decerebrati sui social, cancellato in migliaia di esemplari dalle mie bacheche e da quelle di chi si occupava seriamente della questione, ha offerto (su gentile richiesta, come avrete capito) la base “scientifica” e ideologica all’intera galassia trumpiana per cavalcare il negazionismo, creare polarizzazione dall’aria fritta e approfittare cinicamente di una popolazione disorientata e spaventata e dei morti che si accumulavano. Parliamo dei giorni in cui gli USA marcavano record drammatici di vittime del virus, mentre Trump, presidente, litigava con Fauci e suggeriva di bere varechina contro il Covid. Trump con il Covid che per lanciare il suo messaggio saliva nell’auto presidenziale senza mascherina.
Oggi i vecchi favori vengono ricompensati. Trump ha oggi nominato uno dei firmatari di quel documento, Jay Bhattacharya, a capo degli NIH, il più importante centro di ricerca pubblica del mondo, e soprattutto il maggiore distributore di fondi per la ricerca statunitense. Chiunque faccia ricerca biomedica negli USA prima poi fa domanda per un grant NIH. Chiunque si occupi di biomedicina nel mondo conosce l’impatto degli NIH nel sistema della ricerca medica globale.
Dopo il ministero della salute in mano al complottista Kennedy, il più grande fulcro di ricerca americana, e mondiale, è usato come premio per un amico del vincitore, un sostanziale negazionista, latore di teorie pseudo-scientifiche. Guai se alla prossima emergenza Trump si ritrovasse con un nuovo Fauci a scuotere la testa e spiegargli la scienza. Meglio uno yes man. Pazienza se poi non ci capisce niente.
Mentre all’orizzonte si profila l’ombra sempre più minacciosa di una nuova pandemia- stavolta di influenza aviaria- che con una letalità (finora registrata) superiore al 50% potrebbe far correre anche il più accanito no-vax a farsi iniettare sieri sperimentali spintonando le vecchiette in fila per il vaccino.
MicroRNA: i “disturbatori” da Nobel
Cosa sono i microRNA la cui scoperta ha valso il Premio Nobel per la Medicina 2024 a Victor Ambros and Gary Ruvkun?
Anzitutto devi sapere cosa è l’RNA messaggero (mRNA): il cugino più famoso e grande dei microRNA, perché è su quello che questi ultimi agiscono.
Domanda personale: se tu avessi un enorme computer in una stanza e dovessi portare un file in un’altra che faresti?
Esatto: lo trasferisci su una chiavetta. L’mRNA messaggero è l’equivalente chimico della chiavetta per trasportare file genetici (informazione) dai cromosomi al resto della cellula, dove i file vengono tradotti, ad esempio, in proteine. Non a caso si chiama “messaggero”. Questo perché i cromosomi sono come uno di quegli antichi computer di una volta che occupavano un’intera stanza: sono pieni di informazione ma sono sono grandi. Un cromosoma è migliaia di volte più grande della più grande apertura che esiste nel nucleo. Quindi da lì non esce, e infatti ci pensano i messaggeri. Ogni mRNA è una copia fedele del pezzettino di DNA che lo codifica, nel senso che contiene la stessa sequenza di lettere. Fin qui siamo nel programma di Scienze delle medie.
E invece i microRNA che sono? Stesso principio: si tratta di chiavette come sopra, codificate dal DNA che sta nei cromosomi, ma molto più piccole (per questo si chiamano “micro”). Per capirci, un microRNA (abbreviato miRNA) tipicamente è lungo qualche decina lettere, un mRNA migliaia.
In un microRNA non ci sono abbastanza lettere perché la cellula ci costruisca una proteina o qualunque altra cosa. Che ci si fa con queste “bricciche” di informazione genetica? A che servono?
E’ la domanda che a partire dagli anni ’80 si sono fatti Victor Ambros and Gary Ruvkun, i due scienziati americani che li hanno scoperti e oggi sono stati insigniti del Premio Nobel per la Medicina. All’inizio erano solo loro a chiederselo: trovarono per caso uno di questi microRNA la prima volta nel genoma di un verme e diciamo pure che la comunità scientifica non se li ca*ò più di tanto.
Ma non si diedero per vinti e trovarono altri miRNA che erano molto conservati durante l’evoluzione: in pratica i microRNA ce l’avevano tutti, dalle spugne all’Uomo, e quindi a qualcosa dovevano pur servire. La comunità scientifica cominciò a guardarli con più interesse e rispetto e alla fine si è capito qualcosa sul loro funzionamento.
Cosa fanno? La risposta breve è: i microRNA sono i “disturbatori” dei loro cugini più grandi mRNA. Le loro brevi sequenze ricalcano le stesse sequenze che si ritrovano in alcuni mRNA (in gergo: sono complementari ad esse). Quando si parla di RNA e si dice che due sequenze sono “complementari” significa che queste sequenze si “azzeccano” tra loro, formando una doppia elica, mentre l’RNA è a elica singola (anche questo se hai studiato alle medie lo dovresti sapere). E’ una questione chimica, anzi, biochimica.
Quindi, ad esempio: hai un mRNA bello pronto che sta per essere trasformato in una proteina. Ma arriva un microRNA che si azzecca alla sequenza e forma una doppia elica, bloccando tutto. E’ più complicato di così, ma ti dà un’idea di come i microRNA fungano da modulatori dell’attività degli mRNA, e quindi dei geni che li codificano. E’ un altro modo ingegnoso che l’evoluzione ha escogitato per aumentare la complessità del genoma, usando però sempre lo stesso macchinario: quello che produce gli mRNA produce anche i microRNA che all’occorrenza modulano il loro funzionamento.
Perché Nobel per Medicina e non Chimica? Perché si è scoperto che quando i microRNA sono difettosi, sono guai. Questi pidocchini del genoma modulano infatti fenomeni fisologici e patologici importantissimi ,tra cui i tumori.
Ora sai tutto sui microRNA!
No, non è vero. Ora conosci un miliardesimo di quello che potresti sapere (io che faccio il Biologo molecolare da 30 anni ne so forse un millesimo). Ma almeno puoi convincerti che in un minuto si impara tutto perché oggi è così, e poi stasera puoi fare bella figura con gli amici.
© Sergio Pistoi
Bianca Balti, Angelina Jolie: cosa può insegnarci la loro storia.
La vicenda di Bianca Balti, la famosa e amata modella oggi alle prese con un tumore ovarico, dovrebbe forse riaprire un dibattito sulla gestione – soprattutto comunicativa- delle pazienti portatrici di mutazioni BRCA1.
Queste predisposizioni genetiche, come altre, le ho incontrate spesso nel mio lavoro di biologo molecolare e di comunicatore, scrivendone anche nei miei libri. Si tratta di mutazioni rare del DNA, che rappresentano una percentuale molto minoritaria di tutti i casi di tumore, ma che predispongono fortemente a sviluppare un tumore della mammella e/o delle ovaie (e in minore misura del pancreas). Per “fortemente” parliamo di un rischio che arriva al 40 e fino all’80 per cento di sviluppare uno di questi tumori – a seconda del tipo preciso di mutazione e della storia familiare, quando il rischio nelle donne senza la mutazione è di molte volte più basso.
Qualche anno fa Bianca Balti (che si curerà, e a cui va naturalmente l’augurio di una remissione il prima possibile) condivise con il pubblico la scoperta di questa mutazione nel suo DNA, la sua operazione di mastectomia – l’unica soluzione per limitare efficacemente il rischio di tumore al seno in questi casi- e la decisione di rimuovere anche le ovaie.
Una storia che per analogia ricorda quella di Angelina Jolie, l’attrice che anni prima aveva deciso di rimuovere seni e ovaie dopo aver scoperto di avere mutazioni nello stesso gene. Non sappiamo il motivo per cui Balti non abbia rimosso anche le ovaie – come aveva intenzione di fare- ma è una sua decisione e non siamo qui per sindacare o giudicare.
Quello che sappiamo è che, purtroppo, con un rischio di tumore del 40% o più dovuto alla mutazione BRCA1, attendere può essere come tirare una monetina nella lotteria dei tumori. Gli esperti oggi sono piuttosto concordi nel consigliare la rimozione il prima possibile di seni e ovaie alle portatrici di queste mutazioni, considerata anche la possibilità di congelare gli ovociti prima della rimozione e quindi poter comunque procreare.
Fermo restando che la scelta è personale, la mia impressione , almeno rispetto ai casi che conosco, è che questo messaggio non sia comunicato con sufficiente forza o chiarezza.
Credo che tutte le donne con questa mutazione dovrebbero aver molto chiaro il rischio che corrono rimandando queste procedure, e la mia impressione – al di là di questo caso pubblico- è che per varie ragioni questo rischio non venga comunicato o percepito nella maniera corretta.
Andrebbe inoltre preso in considerazione il bias di avversione alla perdita (preferisco irrazionalmente evitare un danno immediato anche se ne rischio uno più grande in futuro) che è sempre in agguato per tutti, specialmente quando si tratta di decisioni difficili come queste, in una situazione di ovvio stress. Quando prevedibili bias cognitivi remano contro, non basta dare l’informazione ma bisognerebbe anche lavorare su quelli: solo così una persona può prendere decisioni davvero consapevoli e razionali.
E ancora a monte della diagnosi: conosco personalmente donne la cui storia familiare è altamente suggestiva di queste mutazioni ma che per vari motivi (paura dell’esito, paralisi decisionale, ma soprattutto scarsa informazione e aiuto da parte dei medici curanti) non eseguono il test, prendendosi un rischio ingiustificato sulla propria vita e confidando nei controlli periodici.
Sia chiaro: i controlli periodici sono importanti ma le mutazioni BRCA sono una brutta bestia. Conosco più di una persona con queste mutazioni che da un controllo negativo si è ritrovata l’anno dopo con un tumore avanzato e tutto lascia pensare che Bianca Balti sia tra esse. Confidare nei controlli in questi casi non è – a mio modesto avviso- una scelta prudente.
Ripeto: non sappiamo perché Balti abbia tardato a operarsi ma il punto è dare un messaggio chiaro a tutte/i in modo che siano consapevoli dei rischi, che per queste mutazioni sono molto alti. Chi ha una storia familiare di tumore mammario e/o ovarico (madri, zie, sorelle) dovrebbe chiedere una consulenza genetica (si fa alla ASL) ed eventualmente sottoporsi al test genetico che si fa con un normale prelievo di sangue (o anche saliva).
E chi non ha una storia familiare di questi tumori? Normalmente non è indicato un test, dal momento che le mutazioni BRCA sono rare nella popolazione e quelle de novo (nuove, non presenti nei familiari) sono ancora più rare. Tuttavia, non è affatto una cattiva idea sottoporsi a consulenza genetica (eventualmente seguita da un test) in caso di tumore mammario prima dei 40 anni. Questo perché la storia familiare non è sempre certa e nel caso di famiglie con poche donne il caso può ingannare.
Secondo Il National Cancer Institute una donna con tumore mammario prima dei 40 anni ha 1 probabilità su 10 di avere mutazioni BRCA1. Per alcune popolazioni come gli Askenaziti la probabilità di mutazioni è anche più alta. Un test genetico oggi costa (o dovrebbe costare) relativamente poco e dovrebbe essere più un ostacolo insormontabile.
Ancora una volta la buona comunicazione è fondamentale, e bisogna comunque ringraziare tutti i personaggi pubblici che condividono le loro storie e contribuiscono al dibattito serio sull’argomento.
Parità di genere tra relatori: il mio DECALOGO
Negli ultimi anni ho avuto il piacere di coinvolgere e ospitare oltre 200 relatori dal mondo della ricerca negli incontri con le scuole (spesso insieme al collega Andrea Vico e il nostro progetto Geni a Bordo). Ben più della metà sono donne, da noi scelte e invitate perché erano le persone più adatte a parlare in quel contesto, per la loro esperienza e capacità e sicuramente non in base ai loro cromosomi. Alcune di loro leggeranno questo post e le ringrazio ancora per tutto quello che hanno portato e trasmesso agli studenti.
Le domande dei ragazzi e delle ragazze sono ovviamente sempre l’ingrediente più saliente di questi incontri. In un’occasione, ad esempio, una studentessa chiese alla relatrice (impegnata nella ricerca farmaceutica) come gestisse con il suo capo il fatto di essere donna.
“Sono io il capo,” rispose lei sorridendo e demolendo in un secondo secoli di pregiudizi che albergano purtroppo anche nella testa delle ragazze.
Ho fatto questo esempio per mostrare la potenza del role-model, quando parte da una testimonianza vera e diretta, e per introdurre senza retorica e moralismi perché in ogni evento pubblico sia utile avere panel il più possibile gender-balanced.
La mia personale opinione, affinata in 25 anni di esperienza, è che:
a) un evento divulgativo o culturale ben fatto abbia anzitutto l’obiettivo di presentare la realtà in modo accurato;
b) l’adeguatezza degli speaker (competenza e capacità di coinvolgere) sia il criterio fondamentale da seguire nella scelta.
Di seguito qualche suggerimento su cosa fare ed evitare quando si è invitati a parlare o si organizza un evento.
1) Un panel di soli uomini è da evitare anzitutto perché proietta quasi sempre un’immagine distorta della realtà. ll messaggio implicito per chi guarda è che non hai trovato (o non ci sono) donne adeguate a trattare pubblicamente il tuo tema. Nella mia esperienza, è molto raro che questa carenza di talenti femminili si verifichi nella realtà.
2) Se siete invitate/i ad un evento (o ne organizzate uno) con un chiaro eccesso di uomini, prima di dare l’OK è importante chiedersi se tale composizione offre un’immagine realistica dell’ eccellenza in quel campo. Davvero non ci sono donne adatte a parlare in quel panel? E’ raro che la risposta sia negativa- e in caso contrario quel settore ha forse un problema di fondo che magari vale la pena discutere. Molto spesso invece si tratta di pregiudizio sessista che viene messo impudentemente in piazza creando una potenziale minaccia per l’immagine di chi lo organizza. Oltre naturalmente al mancato guadagno causato dalla rinuncia alle competenze di una persona che magari avrebbe arricchito la discussione.
3) Mai sottovalutare la potenza del role-model, specialmente in un contesto divulgativo e specialmente con i più giovani. Se ti vengono proposti modelli sempre lontani da quello che sei, ti convinci che quel mondo non ti appartiene. Anche per questo la diversità dei relatori è strategicamente utile a raggiungere lo scopo, oltre che una corretta rappresentazione della realtà.
4) Un buon approccio per un panel ben riuscito è pensare sempre e comunque alla persona migliore che possa parlare in una determinata occasione e non concedere eccessivo spazio agli equilibri istituzionali. Di solito ci si ritrova automaticamente con un panel sufficientemente variegato senza farsi troppe paranoie. Almeno, questo è il mio approccio e finora ha funzionato.
5) Mai invitare una persona non adeguata solo per riempire una quota: è un errore, e se la persona non è adatta non farà che rinforzare stereotipi negativi. Purtroppo lo vedo fare spesso.
6) Cosa fare se sono disponibili sono uomini o solo donne? Non è mai bello da vedere un panel mono-genere (trovo che neanche i panel di sole donne siano motivo di vanto) ma non è sempre un dramma se la tua storia e reputazione giocano a favore .Gli eventi sono soggetti a limitazioni logistiche e può succedere anche agli organizzatori più attenti di riuscire a coinvolgere solo uomini o donne. Ricordo almeno un’occasione in cui ho invitato tre relatrici che erano però impegnate e mi sono ritrovato con un panel molto sbilanciato al maschile. In questi casi sono i precedenti e la reputazione a fare la differenza: se è facile verificare che organizzi gli eventi al meglio, e senza guardare il genere, una deviazione statistica viene interpretata per quello che è. Ecco perché è importante, specialmente per un’istituzione, stabilire un rapporto di fiducia con il pubblico che sia basato su elementi reali e nel tempo, e magari rivolgersi per l’organizzazione a gente capace e di esperienza. E ovviamente preparare tutto in anticipo in modo da avere più tempo per coinvolgere gli ospiti giusti. Non è facile farlo capire a chi di dovere.
7) Se proprio vi ritrovate con un panel mono-genere cercate almeno di affrontare l’elefante nella stanza e chiarire subito, col pubblico, che è stato un caso e non un’abitudine, mostrando così di esservi posti il problema.
8) Una diversity artificiale e geneticamente modificata – quegli eventi dove si invita la gente in base a tutto tranne che alla competenza- rischia di essere ancora peggio di una non-diversity fatta in buona fede, magari per ragioni puramente logistiche. Questa è la mia personale opinione, che magari non piacerà a tutti.
9) Se invito una donna a moderare un panel di soli uomini rimedio al problema? E’ una situazione che si vede spesso. Decisione comprensibile, ma la situazione “donna chiede-uomo risponde” non fa che aggravare gli stereotipi di genere. Inoltre si capisce benissimo che e’ un modo per rattoppare la situazione. Meglio fare un bel panel equilibrato e poi farlo moderare da chi volete.
10) Evitate i luoghi comuni motivazionali tipo “Le donne hanno una marcia in più”. Molte donne hanno sicuramente una marcia in più rispetto a molti uomini, ma il fondamento della non discriminazione è che le differenze individuali contano enormemente più di quelle di genere o gruppo, quindi tenderei a lasciare perdere affermazioni sul valore che mettono un intero genere nello stesso calderone, anche perché sono difficilmente sostenibili da una parte come dall’altra. Una battuta può strappare un applauso ma a mio avviso rischia a sua volta di cadere nello stereotipo. Volevo chiudere con qualche consiglio comunicativo per le relatrici invitate a parlare del loro lavoro basandomi su quello ho visto negli anni. Ma eviterò ogni rischio di mainsplaining e mi limiterò a questo suggerimento sintetico che vale per tutti.
Per qualunque approfondimento o necessità comunicativa, maschile, femminile o non binaria, non esitate a contattarmi.
Vaccini a mRNA contro il CANCRO: tutorial
Nel nuovo video Youtube del mio canale spiego in modo comprensibile quello che devi sapere sui vaccini a mRNA contro i tumori dopo la sperimentazione del vaccino sul melanoma anche in Italia. Funzionano i vaccini contro i tumori? A che punto sono le sperimentazioni, quanto costeranno. Viaggio in una tecnologia da fantascienza e dove si ripongono le speranze per curare molte forme di cancro.
Non dimenticare di mettere un like e iscriviti al canale.
Guarda anche il sito (in inglese) della mia piccola agenzia di comunicazione e fammi sapere cosa ne pensi.
La cavolata delle razze umane: speciale Giorno della Memoria
Le razze umane non esistono: ce lo dice il DNA. Ma è un “incidente” evolutivo, poteva andare diversamente. Come ci comporteremmo se un’altra razza umana esistesse davvero? Siamo fortunati che i Neanderthal non ci siano più? Oppure ci siamo persi un’opportunità per imparare ad abbracciare le differenze, invece di sperare che si possano cancellare? La cavolata delle razze umane. Nel video il mio contributo “genetico” per il Giorno della Memoria, rieditato con qualche nuova sequenza.
Fate girare!