Bioterrorismo soft
L’idea che un virus mortale venga usato da qualcuno per diffondere il terrore è uno degli incubi del nostro tempo.
Ma il bioterrorismo può assumere contorni sottili e inaspettati.
Come insegna la vicenda dei sei medici e infermieri di origine bulgara, accusati senza fondamento di aver deliberatamente iniettato il virus HIV ad alcuni dei loro pazienti. Dopo aver subito otto anni di prigionia, un processo-farsa che li ha visti condannare a morte e poi commutare la pena in ergastolo, la rugginosa macchina della diplomazia UE si è attivata per negoziare l’estradizione dei sei in Bulgaria, dove pochi giorni fa sono stati liberati dalle autorità.
Il lato inquietante di questa storia è il fatto che la Libia abbia usato l’HIV, e una triste vicenda di bambini morti per contagio accidentale, come arma di ricatto nei confronti dell’UE. E alla fine la UE ha calato le braghe, firmando un intesa con il paese nordafricano e barattando la liberazione dei prigionieri con una serie di agevolazioni (da anni la Libia è sotto embargo).
Vale la pena ricordare l’impegno di un nutrito gruppo di ricercatori, tra i quali spiccano equipe dell’Istituto Superiore di Sanità e di Tor Vergata, nel denunciare, dati scientifici alla mano, l’infondatezza delle accuse libiche.
Uno loro studio apparso su Nature nel 1996 è diventato un “J’accuse” scientifico: l’analisi molecolare dei virus dimostrava che il ceppo era già abbondantemente circolante nell’ospedale prima dell’arrivo dei bulgari. Ad uccidere i poveri bambini, insomma, è stata la scarsa igiene dell’ospedale e quindi, semmai, l’incuria delle stesse autorità libiche che gridano “all’untore”.
L’evidenza scientifica e gli appelli di illustri ricercatori non hanno però dissuaso le autorità libiche dal proseguire il loro gioco al massacro. In un certo senso, la Libia ha inaugurato l’epoca del bioterrorismo “soft”, trasformando abilmente l’HIV in una potente arma di ricatto.