Bella Zio Partigiano- reloaded
Mio zio Giovanni, partigiano e fratello di mio padre, venne catturato e torturato dai nazisti a 23 anni. La sorella Vilma lo vide per un attimo in caserma e non lo riconobbe da quanto era malridotto. Poco dopo fu fucilato e un comunicato alla radio recitò: ”E’ stato fucilato il sicario al soldo del nemico Giovanni Pistoi”.
Tutto è relativo, come direbbe qualcuno.
Dopo la morte di Giovanni, mio nonno cadde in depressione. Dicono fosse ossessionato dall’idea folle che se non avesse lasciato andare l’ultimo abbraccio al figlio prima dell’esecuzione lui sarebbe stato ancora vivo. Tempo dopo, disperato, si impiccò. Un altro figlio più giovane, Spartaco, anche lui partigiano, fu ucciso in combattimento poco tempo prima.
Al cugino di mio padre Ennio andò meglio. Dopo l’8 settembre diventò comandante della resistenza e fu tra gli artefici dell’attività clandestina in Torino. L’azione più eclatante fu un raid alla prigione di via Ormea, dove erano rinchiusi i prigionieri politici. Vennero tutti liberati e nascosti insieme alle loro famiglie, nel frattempo messe al sicuro.
Dopo la guerra, Ennio scrisse un bel libro di memorie e passò gli ultimi anni della sua lunga vita a raccontare la sua storia, e quella della resistenza, nelle scuole. Anche il fratello Luciano, che diventerà poi un famoso gallerista, partecipo’ alla lotta clandestina.
Insomma, vengo da una famiglia che ha pagato un tributo piuttosto pesante allo sforzo per cacciare a pedate i nazi-fascisti, collezionando anche qualche piccolo successo.
In mezzo agli ex-partigiani, in particolare quelli che avevano scorrazzato per le valli del cuneese e in Torino, ci ho praticamente passato l’infanzia. Ricordo che molti tra loro si chiamavano ancora coi nomi di battaglia.
Un amico degli zii aveva l’officina e quando ero piccolo mi riparava la bici. Lo chiamavano “Frus”, il nome che aveva scelto sulle montagne. Il nome anagrafico non l’ho mai saputo. Per dire che la Resistenza per quei reduci non era Storia ma memoria di vita, e neanche troppo sbiadita.
Ogni 25 Aprile mia zia Vilma e il marito Luciano, anche lui con una storia di lotta partigiana, salivano sulle montagne del cuneese e partecipavano al “radun dei Partisan” sotto i gonfaloni delle associazioni. Gonfaloni al plurale, dato che già nel primo dopoguerra l’ANPI si era scissa in diverse altre associazioni per divergenze politiche e ideologiche.
Ogni anno che passava gli zii tornavano sempre un po’ più abbacchiati perché dietro ai gonfaloni delle associazioni erano sempre meno. Il tempo scorreva e i vecchi compagni morivano di vecchiaia.
Finché un giorno anche gli zii se ne andarono.
Si avvicina rapidamente il giorno in cui anche l’ultimo partigiano scomparirà. Resteranno i documenti. Rimarranno come sempre la Storia e la memoria. Fatta anche di piccole cose, come il fazzoletto insanguinato di zio Giovanni, che mia zia teneva in un cassetto e ogni tanto mi mostrava, e la sua lettera prima di morire, pubblicata insieme a tante altre negli archivi della Resistenza.
Ho già raccontato dei miei zii partigiani e di come la retorica stesse a zero. Se leggete le lettere dei condannati a morte della Resistenza non ci trovate quasi mai grandi ideali e proclami di Patria o Libertà. Negli ultimi momenti pensavano alla fidanzata, ai familiari, alle cose che lasciavano e avrebbero voluto continuare ad avere. Erano ragazzi. Come tutte le persone sensate avrebbero voluto la pace e la vita normale ma gli eventi li costrinsero a scegliere una strada.
Il cugino Ennio passò la vita a raccontare ai bambini quanto sia brutta la guerra. Ma sapeva benissimo – e lo diceva- che la Libertà ha un costo, e che in casi estremi ci si difende con la forza e si fa trovare il duro al cane che vuole mordere.
Sinceramente, pensavo fosse ovvio.
E invece proprio in questo periodo una mattina, O Bella Ciao, mi son svegliato e ho trovato l’invasore. Che secondo alcuni c’è, per carità, ma andrebbe valutato nel complesso geopolitico e comunque non ostacolato troppo per non farlo incazzare e prolungare il conflitto e magari alla fine viene pure fuori che aveva ragione.
E allora per questo 25 Aprile permettetemi di rappresentare indegnamente i miei parenti morti, e quello che mi hanno insegnato, con una riflessione pratica.
La maggior parte di noi è abbastanza fortunata da poter seguire un’invasione solo dalla TV o dalle frecce che si muovono su una mappa. Associamo la pace a territori che passano di mano, come nel Risiko.
Perché continuare a resistere, magari pagando un prezzo altissimo, quando si può cedere al nemico? Cosa sarà mai qualche pezzo di terra che passa di mano?
La realtà sul campo di solito è piuttosto diversa. I territori, le città, che passano di mano non sono come aziende che cambiano proprietario mentre i dipendenti continuano il lavoro come prima.
Se sei in pace e vieni invaso da una potenza predatoria, quest’ultima di solito mira a prendersi quello che è tuo. Materialmente e culturalmente. Di solito succede che la tua casa, i tuoi averi, quello che hai costruito per te e la tua famiglia non sono più davvero tuoi e passano di mano rapidamente.
Le regole che hai scelto e condiviso non valgono più: vigono quelle di chi ha vinto. Piegarti o favoreggiare il nemico che ti ha minacciato, invaso, e magari distrutto la tua casa e la tua famiglia, diventa l’unico modo per sopravvivere, avere un lavoro, salvaguardare la tua incolumità.
Alla fine delle ostilità, i territori e le risorse conquistate vanno ad arricchire il nemico (che di solito punta a quelli più redditizi) e fungono da trampolino per nuove conquiste.
La società in cui vivrai ne risulterà assai più impoverita. Nel medio termine, la tua prospettiva e quella della tua famiglia, è quella di vivere in miseria, in un ruolo subordinato. La tua cultura, lingua e scala di valori ridotte ad un ruolo marginale.
Tutto questo nella migliore delle ipotesi, perché ci sono anche invasori dediti alla sostituzione etnica, alla deportazione e comunque all’annientamento culturale e fisico del perdente.
Quando dal calduccio pensiamo “ma perché non si arrendono, almeno restano vivi e con la casa in piedi?” bisognerebbe riflettere su questi dettagli pratici, e rispondersi se valga la pena alzare la bandiera bianca senza provare almeno a resistere.
Credo di poter garantire che nessuno resiste per follia o puntiglio, o sapendo per certo di venire annientato.
Neanche i partigiani, almeno quelli che ho conosciuto, combattevano per un’idea astratta di Patria, e tantomeno per morire. Puoi combattere per un sacco di motivi ma in genere, se resisti, e rischi, lo fai perché nel rozzo ma comprensibile rapporto costi/benefici l’alternativa, cioè arrendersi, risulta ancora più insopportabile.
E a proposito di Resistenza aggiungo pacatamente, e solo perché l’occasione lo impone, che da una certa associazione di partigiani in questi giorni ho sentito dichiarazioni che avranno fatto certamente rivoltare nella tomba quella parte della mia famiglia che la lotta partigiana l’ha fatta davvero.
Ma io non farò polemica, non oggi. Credo che i veri nemici siano altrove, non certo nelle associazioni di partigiani. Che in fondo seguono un destino ovvio: il tempo passa, i vecchi partigiani muoiono, e alla fine diventano associazioni dove è sempre più alto il rischio di derive, magari nel grottesco.
Gli zii anche quest’anno si fanno vivi e mi ripetono che Libertà non è il cancello che qualcuno ti apre. La Libertà non sta in un decreto. La Libertà si guadagna ogni giorno, anche e soprattutto nelle piccole cose, e ha sempre un costo. Dipende solo da cosa sei disposto a sacrificare.