Cosa possiamo imparare dalla disastrosa campagna del ministero della salute.
Infuria la polemica sulla campagna Fertility Day del ministero della Salute, con la seconda versione dei materiali informativi appena ritirata dal sito, com’era successo pochi giorni fa con la prima versione. Se il primo tentativo è stato un epic fail, il secondo è un olocausto nucleare della comunicazione.
L’intera campagna è una rassegna sconcertante di ingenuità comunicative da cui però possiamo trarre preziose lezioni ed è questo l’obiettivo del mio post, dove tenterò un’analisi degli errori comunicativi più evidenti e di come si potevano evitare.
Prima i fatti: all’inizio di settembre trapelano i materiali di una nuova campagna di informazione del ministero della Salute, chiamata Fertility Day. L’ obiettivo sanitario, informare sulle cause dell’infertilità, è giusto e condivisibile, ma l’approccio comunicativo è dilettantesco. La campagna, pianificata malamente ed eseguita ancora peggio, scatena polemiche e sfottò un pò dappertutto ed è abortita ancora prima della partenza ufficiale fissata a fine settembre.
Lezione 1: I diversi canali di comunicazione (radio, TV, web, stampa etc…) devono funzionare sinergicamente e dare messaggi coerenti fra loro.
Già dal capitolato del bando ministeriale, in realtà, si poteva capire che le cose non promettevano bene. Ad esempio, già in fase di bando era già stabilito che la campagna TV la facesse il ministero, mentre gli altri canali sarebbero stati in mano all’agenzia appaltatrice. L’impressione, confermata dagli eventi, è che non ci fosse una cabina di regia in grado di coordinare la campagna in modo che tutti i canali (TV, radio, web, cartellonistica etc..) fossero sinergici e coerenti. Non si può pensare ad una campagna multicanale senza una strategia generale e una cabina di regia.
Lezione 2: Mai tralasciare i fondamentali, e il titolo è fondamentale.
Altro errore di base: il nome. Fertility day. E’ chiaramente sbagliato per una campagna di informazione sanitaria sull’infertilità. Nella testa del lettore fa risuonare i valori della fertilità e della riproduzione e non l’idea di un problema di salute pubblica, che era l’obiettivo della comunicazione. Anche in assenza di idee originali (alla faccia dei creativi) sarebbe stato meglio puntare sul concetto di infertilità. Infertility day? Brutto ma se non altro non avrebbe rischiato di essere frainteso come l’apologia delle Italiche Fattrici. Giornata contro l’infertilità? Meglio, o comunque un filone da esplorare in mancanza di altre idee. I titoli non cascano dall’albero: bisogna lavorarci, simulare, mettersi nei panni del target e capire l’effetto che fanno (vedi anche la lezione 3). Ai non addetti può sembrare una sottigliezza, ma vi assicuro che siamo a livello elementare di comunicazione pubblica.
Lezione 3: In fase di pianificazione bisogna sempre mettersi nella testa del target.
Altro problema che scatena la bufera: i messaggi degli opuscoli e dei cartelli sono confusi, non è chiaro dove si voglia arrivare. Peggio ancora, alcuni di essi suonano come un invito esplicito ad accelerare la riproduzione prima che sia troppo tardi, ignorando allegramente il contesto sociale in cui vengono catapultati: coppie con lavori precari, asili e strutture di assistenza carenti, maternità difficili per le lavoratrici. Un altro grave errore che un comunicatore non può permettersi: bisogna sempre tenere conto delle possibili reazioni del target, e chiedersi come il messaggio verrà interpretato in base al contesto sociale, ai riferimenti culturali, all’attualità del momento.
Le reazioni sui social alla prima versione degli opuscoli non si fanno attendere e vanno dallo sfottò alla polemica furente. Scrivendo su Internazionale, la pubblicitaria AnnaMaria Testa riassume le evidenti ingenuità comunicative della campagna, definendola “una provocazione sterile”. Testa piega bene che
“persuadere è una pratica gentile e che è sbagliato credere- come afferma qualcuno- che una campagna funzioni solo perchè se ne parla”.
Questa gliela rubiamo, è un’altra lezione importante:
Lezione 4: Il vecchio detto secondo cui “non importa come, purché se ne parli” è una cavolata.
Bisogna vedere come se ne parla, e quali messaggi si trasmettono. Anche qui siamo a livello di comunicazione strategica elementare. Tutte cose che un capo comunicazione del ministero, e un’agenzia, dovrebbero sapere.
Lezione 5: Se la comunicazione pubblica non funziona non è mai colpa del destinatario. Semmai è colpa del comunicatore.
Proseguiamo con la cronaca dei fatti. Mentre monta la polemica sui primi opuscoli , il ministro della Salute Lorenzin, nel fuoco incrociato delle critiche, non trova di meglio che dare la colpa al pubblico che secondo lei non ha capito. Altro errore pacchianissimo di chi ignora i fondamentali. Non fatelo mai.
Lezione 6: un progetto ben fatto richiede tempo e risorse adeguati. E le persone giuste, possibilmente capaci.
Più che un esperto di comunicazione, questo consiglio di buon senso ce lo potrebbe dare la nonna. E invece, in un goffo tentativo di smorzare le critiche, il ministro fa marcia indietro e annuncia in TV e sui social che l’agenzia rifarà la campagna ( gratis) in pochi giorni, al volo, come se fosse una pagnotta venuta male. Pronti per il lancio ufficiale a fine mese. Altro errore evidentemente generato dal panico
Prendete un responsabile ministeriale della comunicazione che ha pianificato male l’intero processo, forse per mancata supervisione, forse perchè ignaro/a dei principi fondamentali della comunicazione. Prendete un’agenzia “scelta” con bando pubblico che, pur avendo a disposizione mesi di tempo e un budget, partorisce un obrobrio come quello che abbiamo visto nella prima versione della campagna. Ora rimetteteli insieme per la la versione 2.0. Vi aspettate davvero che, magicamente e in pochi giorni lo stesso team rifaccia e azzecchi una campagna che aveva chiaramente fallito? In quale universo- si chiederebbe Sheldon di BBT? L’esito era segnato.
Lezione 7: mai farsi prendere dal panico. Un campagna di comunicazione (anche quelle ben progettate) può andare male. Fermati, respira e pensa. Avrai modo di rimediare. Non peggiorare le cose.
Ho solo parafrasato un vecchio insegnamento da sub, sempre valido anche fuori dall’acqua. Il Ministro Lorenzin non ha seguito questo importante precetto. Ed eccoci infatti alla versione 2.0 della campagna che, com’era prevedibile, viene fuori ancora peggio dell’originale: grafica da sagra paesana, luoghi comuni, messaggi incomprensibili e involontariamente razzisti, impiego di immagini mediocri, foto di archivio di quelle che si comprano per pochi centesimi in rete, e già strausate in giro per illustrare la qualunque (nulla contro le immagini di archivio, le uso anche io. Ma almeno spendete di più e compratele in esclusiva, visto che si può fare).
Ma veniamo alla sostanza del messaggio, che è la cosa più importante. Da una parte (“Le buone abitudini da promuovere“) c’è gente bella, bionda e chiaramente caucasica al mare (su un gommone? In spiaggia? E poi perchè al mare?). Bella gente che a quanto pare si riprodurrà senza problemi. Dall’altra , virata in color seppia, un’accozzaglia di giovinastri mezzi rasta che fumano (si fanno le canne? oppure una semplice sigaretta rollata a mano?). Loro sono “i cattivi compagni da abbandonare“. Deduciamo che da grandi non si riprodurranno, non così facilmente almeno.
Il messaggio è ancora più criptico che nella prima versione della campagna. Se prima il detonatore della polemica era stato il tema della maternità banalizzato e maltrattato, stavolta è ancora peggio, perchè fra gli amici da abbandonare si intravedono facce di colore, mentre i felici riproduttori sono tutti bianchi e biondi. Nei social (e non solo) si grida al razzismo, spero involontario, ma è la miccia che fa esplodere (anzi implodere) una campagna mal fatta, inutile e piena di errori.
Lezione 8: Una comunicazione che voglia incidere sui comportamenti deve includere degli actionable.
Anche se il pubblico fosse stato sensibilizzato positivamente da questi opuscoli, c’è infatti un altro difetto da manuale: mancano i cosidetti actionable, ossia messaggi che stimolino un’azione, suggeriscano che cosa fare, ad esempio quali comportamente adottare per combattere l’infertilità. Tipo: parlane col tuo medico. Oppure, se avesse una rilevanza sanitaria: cancella dalla rubrica tutti gli amici con i capelli rasta. Questo tipo di cose.
Gli actionable mancano nella prima e nella seconda versione. A cosa serve una campagna del genere se non mi dà indicazioni su cosa fare? Se vuoi che smetto di fumare per salvaguardare i miei spermatozoi, dimmelo chiaramente e persuadimi, non mi mettere le foto degli sballoni incitandomi ad abbandonarli come cani sull’autostrada. Neanche il materiale sul sito (almeno quello che non è stato ancora ritirato) aiuta. E’ ripetitivo, paternalistico, mal progettato e mal scritto.
Lezione 9 e 10 l’autoreferenzialità uccide la comunicazione.
Questa vicenda sarebbe un case history da portare nei corsi di comunicazione, se non fosse che queste cose succedono tutti i giorni senza che la gente lo sappia. Per un epic fail come questo che finisce sotto i riflettori, centinaia di altre Caporetto si consumano nel silenzio, sotto gli occhi sempre più mesti di chi ama la comunicazione ben fatta e responsabile.
Soltanto il ministero della Salute nell’ultimo anno ha lanciato decine di campagne informative. Quante di esse hanno centrato gli obbiettivi? Non è dato di sapere. La collega Barbara Gallavotti, con cui in tempi non sospetti scrissi un breve saggio sulla comunicazione istituzionale, commentanto su Facebook ha sintetizzato efficacemente la questione:
“di solito il risultato rimane visibile a pochi i quali si fanno i complimenti fra loro con il solito meccanismo autoreferenziale che conosciamo. Questa volta è uscito tutto fuori, ed è stato come mettere un gatto persiano in mezzo a una superstrada di Los Angeles all’ora di punta.”
E così abbiamo anche i gattini, che su Internet vanno sempre bene.