Quando chiesero a Marina Abramovich cosa è l’ “arte” lei rispose che se un’opera o una performance le fai nel posto giusto, la chiamano arte, altrimenti no. (non è una citazione verbatim ma il concetto è quello).
Parafrasando potremmo dire che nel mondo culturale italiano la definizione di “giornalismo” o “informazione” dipende molto da dove la fai. Se ad esempio una cosa la fai in TV o in certe testate si chiama “giornalismo”, “informazione” o “cultura”, anche se la fai male e ti vedono quattro gatti. Se invece la fai su Youtube sei uno “youtuber”, (sottinteso in certi ambienti: l’equivalente culturale di un buffone, o di un intrattenitore). Anche se la fai bene, anche se trasmetti messaggi molto più efficaci e ti vedono in tanti.
La classifica di “serietà” percepita nel mondo dell’informazione italiano, diciamo così piuttosto autoreferenziale, potremmo riassumerla nel modo seguente:
-Se sei un giornalista e vai in TV, sei arrivato.
-Se sei un giornalista e stai su Twitter, sei un giornalista.
-Se sei un giornalista e stai su Facebook, cazzeggi con le foto dei viaggi o ti fai promozione con i boomers.
-Se sei un giornalista e stai su Youtube, sei uno youtuber.
(Se sei un giornalista e stai su Instagram, sei semplicemente a caccia di f.ga.)
Ora a me questo schema crea diversi problemi. Prendiamo ad esempio Youtube. Un mio video sui vaccini è il terzo contenuto italiano più visto sul tema con 1,7 milioni di visualizzazioni (poco dopo quelli di Cartoni Morti e escludendo un paio di inutili video di battibecco acchiappaclick presi dai talk show ).
Non sono qui a fare l’apologia delle views: chi segue i miei corsi di comunicazione sa quanto consideri poco rilevanti queste metriche da sole.
Il punto è che molti miei video Youtube, dati Nielsen alla mano, hanno in media una audience più alta della maggior parte dei programmi TV di daytime e anche di certi programmi serali. I miei video durano peraltro durano 15-20 minuti e oltre, contro i 30 secondi medi di approfondimento offerto dalla TV generalista. Sulla rispettiva qualità dei contenuti non dovrei essere io a giudicare, e non lo farò, ma sui numeri questa è la realtà, e vale a maggior ragione per i canali social di colleghi che sono anche più seguiti di me.
Eppure Youtube, nella mente di molti, resta un medium da sfigati, di quelli “che in TV non ci vanno e quindi si arrangiano in casa”.
Niente aurea di expertise perché te la suoni e canti da solo, in casa tua, con le magliette sceme.
Non vale solo per Youtube. Quando per mesi, durante la pandemia, ho scritto su Facebook critiche documentate riguardo al CTS, sono rimaste dov’erano: nel mondo social, seppure lette e apprezzate da migliaia di lettori e scopiazzate (maluccio) da qualche giornalista che le aveva lette. Dopo che ho pubblicato sostanzialmente gli stessi contenuti su Nature Italy i dubbi sono entrati nel dibattito pubblico e hanno avuto un discreto impatto, e io stesso sono stato chiamato a parlarne nei media “mainstream”.
D’accordo, Nature è una rivista seria, quello che ho scritto è stato soggetto ad una verifica editoriale, ed è logico che si goda di un autorevolezza di riflesso data da una testata prestigiosa. Ma questo giustifica tutta questa differenza nella percezione? E quante testate italiane effettuano lo stesso controllo editoriale ai contenuti? (spoiler: nessuna)
Vi faccio un altro esempio: i libri. Mi è capitato di parlare di DNA in un libro che mi ha dato molte soddisfazioni e poi di declinare lo stesso contenuto in alcuni video divulgativi su Youtube. Nell’asfittico mondo culturale italiano, il libro è stata la vera “patente” per entrare nel dibattito, con il corollario di inviti ai festival e agli eventi (quelli pagati, s’intende, per quelli gratis va sempre bene tutto). Non mi lamento, si intende. Però i video ( stesso tema, stesso autore: io) hanno raggiunto un pubblico quasi cento volte maggiore.
Avere pubblicato un libro è oggettivamente una garanzia di maggiore qualità dei miei contenuti? No, e lo dico da autore di libri. Quello che scrivi è quello che esce, fatto salvo l’utilissimo intervento di redattori e correttori di bozze sui testi. La qualità dipende dal contenuto, non dal mezzo. Ma mettere “autore del libro tal di tale” nel sottopancia è un’altra cosa.
L’impressione è che l’attaccamento al supporto, al medium, invece che al contenuto raggiunga livelli quasi feticistici in certi ambienti culturali. E’ un loop autoreferenziale che alla fine fa sì che certi canali e testate e chi li frequenta abitalmente siano sovrastimati e a volte sovrafinanziati. Il fattore economico è evidentemente fondamentale, così come quello della cost-effectiveness di certi media, ma ci tornerò in altre occasioni.
Per ora mi fermo qui, sottolineando che resto un giornalista scientifico in tutti i canali, anche in quelli dove il giornalismo secondo alcuni non esiste. Almeno finché ne avrò voglia e tempo.